ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL TEMPO
(Sezione:        Pag.     )
martedì 15 novembre 2005

di BRUNO VESPA

 

  

 Fini: «Ho fatto bene a sciogliere le correnti»

«Fui amareggiato da La Russa, Matteoli e Gasparri, ma la discussione interna era divenuta patologica»

Nel nuovo libro Vespa ricostruisce con tutti i retroscena la crisi estiva di An a partire dallo scoop de Il Tempo a «La Caffettiera»


 

IN OGNI CASO, nel partito il clima era pessimo quando, il 2 luglio, si aprì la direzione nazionale. Il referendum aveva fatto esplodere una tensione accumulata da tempo. Le elezioni regionali erano andate male anche per Alleanza nazionale, Alemanno si era dimesso da vicepresidente e aveva duramente polemizzato con Fini. Isolato dal referendum, questi rispose per le rime a tutti. Disse che mai An sarebbe diventata un partito cattolico, «anche se deve saper parlare ai cattolici». Accusò i più alti dirigenti «di uno spettacolo che nelle ultime settimane non è parso proprio edificante», definì le correnti «metastasi nel corpo del partito». Sfidò infine i colonnelli: «Sfiduciatemi». Dinanzi alla ribellione generale, l’indomani Fini si scusò: «Le metastasi non sono le correnti e i capicorrente.

La metastasi è la degenerazione del meccanismo correntizio di cui io sono il primo responsabile». Fece anche autocritica sulla scarsa consultazione che aveva preceduto la concessione di libertà di coscienza al referendum e, dopo una laboriosissima mediazione sulla frase dell’ordine del giorno relativa alla legge sulla procreazione assistita, il partito si ritrovò in un documento unitario.

Ma la tregua durò soltanto dodici giorni. FINI aveva dato incarico a La Russa di organizzare una cena con altri cinque invitati: Gasparri, Alemanno, Storace, Nania e Matteoli, che intanto aveva ripreso il vecchio ruolo di responsabile organizzativo del partito contro il parere delle altre componenti. La cena sarebbe dovuta servire a ristabilire un’unità vera, dopo le ferite - non rimarginate - aperte durante l’assemblea nazionale del partito. Matteoli era il più preoccupato. Vecchio e fedele amico di Fini vedeva che le cose non giravano e voleva mettersi d’accordo con gli altri prima di incontrare il presidente di An, la sera di giovedì 14 luglio. La cena ci fu, e andò bene. Fini chiese ad Alemanno di ritirare le dimissioni dalla vicepresidenza. Disse che avrebbe voluto inserire nell’ufficio di vertice del partito il neoministro Mario Landolfi, escludendovi peraltro i tre vicecoordinatori di La Russa (Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, e Giovanni Collino). Fini ignorava, tuttavia, quel che era accaduto all’ora di pranzo di quello stesso giorno.

Alcuni dirigenti di An si erano trovati in mattinata nella splendida sede del «Tempo» a palazzo Wedekind, in piazza Colonna, per un seminario sul partito unico del centrodestra. Poiché il suo intervento stava subendo ritardi, Matteoli propose a Gasparri e La Russa di fare due chiacchiere fuori. «Invece di andare alla Camera, mangiamo un panino alla Caffettiera», un bar che si affaccia sulla vicina piazza di Pietra. I tre si parlarono con franchezza. Si discusse delle possibilità di dividere il partito in una maggioranza e in una minoranza, ma è sul presidente che vennero pronunciate le frasi più impegnative. «Fini è malato» disse La Russa. «Non so di che malattia si tratti, ma o guarisce o sono guai... Sul partito unico non possiamo far fare le trattive a Gianfranco. Quelli gli telefonano e lui dice sempre sì...». «La vera questione» intervenne Matteoli «è chiedersi chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui prima delle ferie d’agosto e dirgli: "Gianfranco, svegliati". Che so, se serve prendiamolo a schiaffi...». Gasparri, al quale non manca la lingua tagliente, fu invece più prudente.

Al tavolo accanto sedeva un giovane cronista del «Tempo», Nicola Imberti, il quale aveva peraltro collaborato brevemente - in modo marginale - con il ministero retto da Gasparri, che però non notò la sua presenza. L’indomani il quotidiano diretto da Franco Bechis pubblicò la conversazione parola per parola. L’ufficio stampa di palazzo Chigi trascurò di inserire l’articolo nella rassegna della presidenza del Consiglio, così il mattino di venerdì 15 luglio Paolo Bonaiuti chiamò Fini senza sapere nulla. «Come stai?» gli chiese. «Come vuoi che stia?» rispose l’altro. «Hai visto "Il Tempo"?». L’episodio, in effetti, era gravissimo e il leader di An reagì come avrebbe reagito chiunque: facendo allestire la ghigliottina per i tre amici al bar. Questi gli scrissero una pubblica lettera di scuse, chiarendo le loro intenzioni costruttive e concludendo: «Tutto ciò non sminuisce, putroppo, il danno che senza alcuna colpa o ragione finisce per colpire anche e soprattutto la tua persona. Per questo non possiamo che chiederti scusa e - dal punto di vista politico - rimetterci a ogni tua decisione». Dopo una sfuriata a Matteoli e a La Russa (i rapporti con Gasparri restavano comunque gelidi), Fini incaricò il suo portavoce Salvatore Sottile di mettere una pietra sulla questione: «Per Fini, la lettera di scuse inviata da La Russa, Gasparri e Matteoli chiude la vicenda».

L’indomani, tuttavia, i giornali montarono enormemente il caso, parlando anche di una parte riservata e ancor più compromettente del colloquio che, in realtà, non era mai esistita, come confermò lo stesso cronista che aveva così attentamente origliato e che fu convocato da La Russa per una testimonianza diretta. «Non era certo un complotto» mi spiega più tardi La Russa. «I congiurati non si riuniscono al tavolo di un bar. Volevamo sistemare al meglio le cose al vertice del partito. La frase su Fini malato? Un equivoco: dissi che eravamo tutti malandati. E poi, sì, in effetti, espressi la mia preoccupazione che Fini, preso da tanti impegni, fosse troppo accondiscendente nei confronti degli alleati sul partito unico. Bisognava scuoterlo.

Ma tutta la conversazione, come confermò lo stesso giornalista, era avvenuta in uno spirito costruttivo». L’OLTRAGGIO mediatico convinse Fini a mettere in funzione la ghigliottina. Tutti gli incarichi furono azzerati, i tre vicepresidenti persero il posto. Matteoli fu sostituito alla guida del dipartimento organizzativo da Marco Martinelli, uno degli uomini più vicini al leader di An. Il territorio periferico delle correnti fu bombardato. Un esempio per tutti: in Lombardia la corrente di La Russa controlla quasi tutto il partito. Bene, il coordinatore regionale Massimo Corsaro, assessore della giunta Formigoni, era un suo uomo e fu sostituito da Cristiana Muscardini, amica di Fini e di Matteoli, la più lontana dalle posizioni di La Russa.

In Puglia Alfredo Mantovano, che si era battuto in maniera nettissima contro la posizione di Fini al referendum, fu rimpiazzato da Adriana Poli Bortone. Per di più, Andrea Ronchi, uno degli uomini più vicini al presidente, diventò portavoce deel partito e fu imposto come futuro deputato di Milano a La Russa (che, peraltro, lo accolse a braccia aperte). La Russa, il più colpito, non condivise naturalmente alcune scelte, ma ne prese atto. («Era la giusta risposta alle offese subite» mi dice). Più tardi chiesi a Fini se quella conversazione al bar gli aveva procurato amarezza personale o preoccupazione politica. «Amarezza personale» mi rispose. E aggiunse, spiegando la sua reazione: «Mi sono mosso sulla base dello statuto del partito che non prevede nemmeno la figura del vicepresidente e immagina l’esecutivo politico come uno strumento di collaborazione nella guida del partito, prescindendo dalla collocazione correntizia dei suoi membri. In realtà, l’azzeramento delle correnti era fortemente sollecitato dalla base, che non ne sopportava più la degenarazione».

RICORDO a Fini che il congresso di Bologna del 2002 fu la santificazione delle correnti. «È vero, e fu un errore dovuto a una mia sottovalutazione. Pensavo che la discussione interna fosse fisiologica. Era diventata invece patologica. Il correntismo era ormai fine a se stesso». Il capo di An guarda al futuro con ottimismo. Quando gli chiedo se si sente il delfino di Berlusconi, risponde da vecchio sub: «I delfini è meglio lasciarli in acqua». Ritiene che la legge elettorale proporzionale abbia scombinato i piani del centrosinistra? «Le primarie che hanno visto il successo di Prodi sono state importanti per la mobilitazione dell’elettorato, ma politicamente non hanno spostato una virgola.

Voglio vedere il Professore quando dovrà presentare in politica economica e in politica estera un programma comune con Bertinotti», Gli chiedo se non sia stato imbarazzante per lui, fortissimo sostenitore del sistema maggioritario, scendere a patti per il proporzionale. «No» risponde. «Il punto centrale non è il sistema elettorale, ma il bipolarismo. La nuova legge elettorale prevede per i partiti il vincolo di coalizione e l’indicazione del loro leader che, nel caso di vittoria, essi proporranno al capo dello Stato come presidente del Consiglio. La legge va poi vista insieme con la riforma costituzionale, che rafforza i poteri del primo ministro e contiene una norma antiribaltone per impedire cambi di alleanze in costanza di legislatura, come avvenne nel 1998 con Mastella, che lasciò noi per consentire la nascita del governo D’Alema». Chissà come finirà, con il referendum annunciato dal centrosinistra per bocciare la riforma costituzionale.


    

 

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