SOTTOSEGRETARIO DI STATO
AL MINISTERO DELL'INTERNO
Dipartimento della Pubblica Sicurezza


Interventi Pubblici

 

 

Intervento del Sottosegretario all'Interno on. Alfredo Mantovano

al Convegno nazionale di AN sulla sicurezza

Torino, Pala Madza - sabato 8 maggio 2004


 

Quando inizia l’esperienza di un governo, si immagina che l’esecutivo si trovi grosso modo nelle stesse condizioni in cui si trova un atleta che sta per cominciare una gara: ha davanti a sé un percorso ben definito – per es., i 400 metri piani -, lo deve coprire bene e deve raggiungere il risultato in tempi accettabili.

Per noi non è andata così: noi non abbiamo iniziato dai blocchi, come l’atleta, ma da qualche centinaio di metri prima di quella che veniva indicata come la partenza. Mentre correvamo, abbiamo scoperto che c’erano tanti ostacoli, e abbiamo dovuto affrontarli. Dico questo subito non per mettere le mani in avanti e per cercare giustificazioni (i risultati, nonostante tutto, ci sono, e parlano da sé), ma perché una forza politica importante - quale è la nostra - dimostra senso di responsabilità anzitutto se non perde di vista la realtà. E la realtà, anche sul fronte della sicurezza, ci impone di ricordare: quale è stata l’eredità che nel giugno 2001 abbiamo dovuto accettare senza beneficio di inventario; che cosa è accaduto negli ultimi 3 anni; quale è stato il contesto nel quale tutti ci siamo trovati.

Sull’eredità ricevuta non la tiro per le lunghe, e ricordo solo due dati di fatto, oggettivi e inconfutabili. Il primo riguarda le stazioni dei Carabinieri e i Commissariati di PS: nel glorioso quinquennio dell’Ulivo erano state autorizzate spese senza copertura che hanno determinato un“buco” complessivo che, al dicembre 2003, con gli interessi, era arrivato a 512 milioni di euro (1000 miliardi di lire). Grazie a questo “buco” uno dei primi ostacoli incontrati è stata l’impossibilità di pagare i canoni delle locazioni, o di eseguire le ristrutturazioni: eravamo sommersi di decreti ingiuntivi, mentre tante caserme erano in condizioni disastrate. L’ultima legge finanziaria ha affrontato questo problema, e ha previsto un piano di rientro triennale, che coprirà per intero questo “buco”, e consentirà di riprendere la costruzione di nuove stazioni e la riparazione di quelle esistenti.

Il secondo dato riguarda il numero di clandestini presenti in Italia nel 2001: secondo le stime dell’epoca, erano non meno di 800.000, grazie all’accorta politica di chi ci ha preceduti. Abbiamo proposto al Parlamento una legge, che è stata approvata e porta il nome del nostro presidente, e abbiamo realizzato non una sanatoria, ma una regolarizzazione, che ha permesso di far emergere dalla clandestinità 650.000 stranieri: persone oneste, che oggi lavorano alla luce del sole e pagano le tasse, e che abbiamo identificato con certezza uno per uno. Tutte le critiche vanno ascoltate con attenzione, anche quelle che provengono dalle forze politiche di opposizione: ma mi riesce veramente difficile sentire le prediche sulla sicurezza di coloro che sono stati capaci di consegnarci buchi finanziari e fasce di clandestinità paurose, e oggi salgono in cattedra e ci dicono che abbiamo fatto male. E ce lo dicono dopo aver contrastato in Parlamento le leggi che hanno rimediato ai loro guasti: ho ancora una sufficiente memoria dei contrasti furibondi che si accesero, mentre si discuteva della legge sull’immigrazione, a proposito dell’introduzione delle impronte digitali, che grazie alla “Fini-Bossi” ci consentono di distinguere fra chi è in Italia per lavorare regolarmente e chi invece ha una falsa identità ed è un criminale.

E’ utile tratteggiare un bilancio del lavoro svolto negli ultimi 3 anni, capire che cosa stiamo facendo in questo momento, e quali sono i programmi a breve scadenza. Lo farò per cenni fra breve: c’è qualcosa nel depliant che viene distribuito. Ma è più importante capire che cosa è cambiato e che cosa sta cambiando nelle scelte in materia di sicurezza dopo quel qualcosa che, tre mesi dopo il giuramento di questo governo, è accaduto a New York e a Washington. E’ qualcosa che impone intelligenza politica, prima ancora che dotazioni di mezzi e incrementi di organici. Qualcosa che esige consapevolezza, approccio culturale adeguato, risposte diversificate. Si è detto tante volte che dopo l’11 settembre nulla più è come prima: è vero, ma questa frase non può essere solo uno slogan. Proviamo a coglierne le conseguenze nella vita quotidiana: oggi in Italia vengono controllati circa 13.500 potenziali obiettivi di attentati terroristici, da piazza S. Pietro alle fonti di energia, che impegnano complessivamente 23.000 unità (19.000 delle forze di polizia e 4.000 militari dell’esercito). Se noi potessimo disporre di 23.000 uomini da impiegare come rinforzi per la lotta all’immigrazione clandestina, o per il contrasto agli scippi o alle rapine, o per la cattura dei latitanti della criminalità organizzata, avremmo numeri ancora migliori di quelli che esistono, e che di per sé sono già positivi.

Ma quella del controllo degli obiettivi è solo una delle voci del nuovo scenario. Di fronte a un nemico che fa esplodere le bombe nelle stazioni ferroviarie, noi non ci stiamo limitando a sorvegliare possibili obiettivi. Possiamo dire con orgoglio che l’Italia è “avanti” su più fronti: è “avanti” con indagini serrate, che hanno consentito di identificare numerose cellule terroristiche operanti da noi; è “avanti” nella sua legislazione, perfezionata a partire dal mese di ottobre 2001: una legislazione che, dalla protezione dei “pentiti” di terrorismo alla individuazione delle fonti di finanziamento delle cellule della morte, viene presa come modello in Europa; è “avanti” nella individuazione di soggetti pericolosi per la nostra sicurezza che, se non possono essere processati perché non esistono prove piene a loro carico, possono però essere allontanati con un provvedimento di espulsione. E’ “avanti” nella collaborazione intensa che presta sul piano internazionale agli altri Stati: la guerra al terrorismo è guerra di informazioni, da raccogliere, da verificare, da analizzare, da ricomporre in un quadro organico e coerente; è guerra nei confronti delle basi di addestramento e di formazione, che spesso vengono scoperte dentro i confini degli Stati europei; è guerra sul piano propagandistico e massmediatico, con fiancheggiatori insospettabili in Occidente.

E’ guerra. Non nel senso tradizionale che si dà a questo termine: nessun ambasciatore ha mai consegnato la dichiarazione di belligeranza al nostro ministero degli Esteri. Non vi è un campo di battaglia nel quale due eserciti o due schieramenti di soldati si fronteggiano. Ci sono piuttosto persone pacifiche che vanno in ufficio, come ogni mattina, arrivano al piano nel quale si trova il loro studio e vengono uccise: non da armi o da missili, ma da gente che ha trasformato sé stessa in armi; che si è impossessata di aerei e con quelli si è lanciata su edifici civili. Ci sono lavoratori pendolari che non hanno mai impugnato una pistola in vita loro che giungono in una stazione ferroviaria, e saltano in aria. Ci sono televisioni, come quella dell’Autorità nazionale della Palestina, che dedicano ore e ore di programmi all’apologia del martirio, e in particolare a mostrare agli adolescenti degli adolescenti che raccontano come è bello farsi esplodere in mezzo a un ristorante o a un supermercato per andare nelle braccia di Allah: un recente libro di Carlo Panella apre uno squarcio in proposito. Ci sono scuole - quelle di cui ha scritto qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia -, nelle quali si insegna ai bambini l’odio contro gli ebrei, fino a esaltare la loro eliminazione fisica: ed è vergognoso che questi programmi scolastici siano largamente finanziati dalla Commissione europea.

Ed è significativo che in uno dei suoi ultimi messaggi Bin Laden, nel momento in cui ha proposto agli alleati europei di lasciare gli USA da soli, ha parlato di “tregua”: ha adoperato la parola “tregua”, non la parola “pace”. La “pace” è estranea al quadro di riferimento di una aggressione che ha la natura e gli obiettivi di una guerra: una aggressione rispetto alla quale il terrorismo è uno degli strumenti più devastanti. Una aggressione che non rappresenta una reazione a qualcosa di ingiusto: la guerra del terrore è stata scatenata prima dell’attacco all’Iraq, e viene predicata e proclamata a oltranza su scala universale, a prescindere dal ritiro o dalla permanenza in Iraq.

Non sono questioni che si risolvono per intero sul piano della sicurezza. Ma non possono escludere quel piano; e soprattutto impongono scelte di priorità anche su quel piano. Se 23.000 uomini vengono impiegati oggi in un certo modo, è perché evidentemente la priorità è la prevenzione del terrorismo. Questo significa che quegli uomini vengono sottratti da altri fronti. Il lavoro che stiamo tentando di fare è di aumentare le risorse a disposizione: abbiamo riempito vuoti di organico che arrivavano nel 2003, fra Polizia e Carabinieri, a 3.000 unità, e abbiamo aumentato gli organici della Polizia di Stato di altre 1000 unità. Ma al tempo stesso proviamo a razionalizzare l’uso delle forze in campo. Questo spiega perché per la prima volta dopo oltre 70 anni il Parlamento sta discutendo un progetto del governo sugli istituti di vigilanza privata: intendiamo dare finalmente identità e certezze agli operatori della sicurezza privata, anche nella prospettiva di liberare polizia e carabinieri da compiti che possono essere svolti bene da altri soggetti (dalla vigilanza negli aeroporti a quella dentro gli stadi). Questo spiega perché stiamo promuovendo, ovunque sia possibile, intese con le polizie municipali perché queste svolgano in esclusiva alcuni compiti – penso agli interventi per gli incidenti stradali -, liberando in questo modo le forze di polizia nazionali per le funzioni loro proprie. Questo spiega perché promuoviamo leggi, come quella sulla patente a punti, che provocano di per sé comportamenti più virtuosi da parte della gente.

Questo spiega, infine, perché dobbiamo essere realmente grati – lo dico senza retorica - verso le donne e gli uomini delle forze di polizia, che stanno consentendo all’Italia di reggere sul fronte della sicurezza; e che stanno permettendo di conseguire, nonostante tutto, risultati importanti sui piani del terrorismo interno, della criminalità organizzata, del controllo dell’ordine pubblico, dell’immigrazione clandestina, della criminalità diffusa. Noi manifestiamo preoccupazione se c’è qualche scippo in più. Ma è interessante sapere che, con riferimento alle quattro regioni del Sud più a rischio di criminalità organizzata, nei primi mesi del 2004 Polizia di Stato e Carabinieri hanno chiesto l’emissione di ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 9.178 appartenenti ad associazioni criminali (quasi tutti, per la precisione 8787, indagati per 416 bis). Noi siamo pronti a lanciare l’allarme per una rapina; ed è bene che sia così: vuol dire che la reattività è alta. A condizione che non dimentichiamo che le indagini svolte negli ultimi due anni hanno assestato un colpo pesante alle Brigate rosse, disarticolando gran parte della sua struttura. Quelle indagini hanno conosciuto una svolta grazie all’eroismo del sovrintendente della Polizia di Stato Emanuele Petri, che ha intercettato i brigatisti Lioce e Galesi durante un controllo ordinario su un treno regionale una domenica mattina. Il che significa molto: significa che i controlli si fanno, che si fanno con cura anche negli orari più impensati, e che si fanno con una dedizione che arriva al sacrificio della vita, se è necessario per adempiere al servizio. Significa che esiste un sistema nel quale nessun elemento, neanche il più insignificante, va perduto.

Lo ha detto qualche giorno fa il ministro Martino, e mi permetto di ripeterlo. Chi indossa una divisa, a differenza di chi pratica il commercio o una qualsiasi professione, non conosce la partita doppia: non ci sono le colonne del dare e dell’avere. C’è una sola colonna: quella del dare. Tutti sappiamo che è così. E, proprio perché ne siamo consapevoli, ci sentiamo impegnati perché queste non restino parole più o meno belle, ma si traducano in realtà, come sta faticosamente avvenendo. Di più; abbiamo assunto un impegno in questa legislatura – e stiamo facendo tutto il possibile per mantenerlo – verso le vittime del terrorismo: per la prima volta, su impulso del governo, il Parlamento sta per approvare una legge organica che riconosca in modo serio i torti gravissimi subiti da chi ha patito lesioni o ha perduto un proprio stretto familiare a causa del terrorismo. Non serve a restituire chi non c’è più, ma è il segnale che lo Stato non abbandona chi perde la vita o l’integrità fisica o un parente per colpa dei nemici dello Stato.

Concludo. All’interno come all’esterno della nostra Nazione noi vogliamo una pace vera, con tutti i “se” e con tutti i “ma” necessari. Una pace che non si costruisca sulla paura e sulla resa del più debole. Una pace che allontani la menzogna di chiamare giusto ciò che non lo è, e che non abbia come parametro esclusivo un incondizionato desiderio di quieto vivere. Una pace che non ceda ai ricatti. Il terrorista, attraverso i suoi proclami, con le sue rivendicazioni, ci dice in modo molto chiaro che se noi facciamo determinate scelte, per es. di politica del lavoro o di politica estera, ci colpirà e ci farà del male. Questa minaccia è la negazione del nostro sistema costituzionale e della nostra democrazia. Nessuno può accettare, per sé o per la comunità, di vivere una situazione di “coltello alla gola”. Nessuno può accettare di votare o di governare col “coltello alla gola”. C’è un solo modo – difficile, lungo, doloroso – per fermare le bande assassine: convincerle che qui da noi il crimine non paga, non ottiene concessioni, non consegue risultati politici, ma anzi rafforza la determinazione di tutti nel combattere il terrorismo. Le Nazioni forti e gli Stati seri rispondono in questo modo ai criminali.

Che la Provvidenza aiuti l’Italia a essere una nazione forte e uno Stato serio.

 

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