SOTTOSEGRETARIO DI STATO
AL MINISTERO DELL'INTERNO
Dipartimento della Pubblica Sicurezza


Interventi Pubblici

 

 

 

Conferenza di Alleanza Nazionale Iraq tra guerra, pace e pacifismo - Lecce, 14 aprile 2003
Intervento conclusivo di Alfredo Mantovano


 

1. Una delle esortazioni evangeliche più difficili da intendere, e da praticare, è quella di saper cogliere i “segni dei tempi”. Spesso questa espressione è stata tradotta come un invito, neanche tanto implicito, a liquidare velocemente il passato, che in quanto tale è negativo, e a darsi senza tanti pensieri alla modernità (intesa non come contemporaneità, ma come ideologia del progresso).

Comprendere i “segni dei tempi” però non vuol dire mettere da parte quanto la tradizione ci ha consegnato; e neanche significa abbandonare o sminuire principi che sono validi in ogni epoca storica.

Vuol dire applicare quei principi alla realtà per come essa è, e non per come vorremmo che fosse. Vuol dire quindi, anzitutto, sforzarsi di comprendere la realtà: che non è mai uguale a sé stessa, e che non si presta ad essere catalogata adoperando schemi che potevano essere validi in contesti differenti, ma che sono sterili di fronte a scenari radicalmente mutati.

Il conflitto in Iraq pone una serie di problemi prima di tutto sul piano della corretta comprensione di quello che accade. Non è facile inquadrare questa guerra sulla base delle categorie tradizionali. Prima della Riv. Francese la guerra si combatteva fra eserciti di professione, coinvolgeva numeri bassi di combattenti, aveva orari e rituali prestabiliti (non di notte, non nei giorni di festa, e spesso neanche nelle vigilie…), in genere si svolgeva fra popoli confinanti. Dalla Riv. Francese e da Napoleone le regole vengono sconvolte, col coinvolgimento sempre più ampio di soldati e di popolazioni. Quale è oggi l'esatta nozione di guerra? La domanda è obbligatoria non solo perché da oltre due secoli sono saltate tutte le regole della guerra tradizionale. Ma anche e soprattutto perché, in presenza della minaccia e dell'aggressione del terrorismo, non esistono più neanche quei residui formali validi fino a qualche decennio fa: dichiarazioni di guerra, volti, luoghi, obiettivi predeterminati…

2. L'11 settembre 2001 gli Stati Uniti d'America sono stati attaccati senza alcuna dichiarazione di guerra. L'attacco è stato portato da aggressori che non potevano essere identificati e che non avevano lo status formale di militare; gli strumenti offensivi sono stati mezzi civili (aerei di linea) e corpi di civili inermi. Si tratta della c.d. “guerra asimmetrica”, tipica dell'era del terrorismo globalizzato.

Tutto è enormemente difficile, a cominciare dallo sforzo di capire che cosa accade, senza pregiudizi e senza ideologismi. Solo agli occhi di Dio il nero e il bianco si staccano in modo netto e incontestabile; noi, con tutti i nostri limiti e con enorme fatica, riusciamo a scorgere un grigiore ora più vicino al bianco, ora più vicino al nero. Decisioni cruciali vanno prese con questi limiti e con queste difficoltà. Io non so in questo momento se, quando gli USA hanno attaccato l'Iraq, George W. Bush ha preso la decisione giusta al 100%: non ho a disposizione gli elementi di conoscenza e di valutazione che ha il presidente degli USA! Probabilmente neanche a Washington ci sono state certezze assolute; in questo Paese, dipinto come cinico e calcolatore, qualche giorno dopo l'inizio della guerra la Camera dei Rappresentanti ha approvato una mozione (346 sì, 49 no) con la quale è stata indetta “una giornata nazionale di contrizione, di preghiera e di digiuno” per “impetrare l'aiuto e la guida di Dio al fine di comprendere meglio i nostri errori e imparare sia a comportarci meglio nella vita di ogni giorno sia a rafforzare la determinazione di ognuno di noi di fronte alle prove che attendono la nostra nazione”. E' un tratto ben diverso dalla esibizione muscolare.

In compenso so per certo che Saddam aveva torto; so per certo che il terrorismo ha torto. Saddam Hussein disponeva di mezzi per seminare morte in qualsiasi metropoli europea o statunitense; bastava inviare un volontario non identificabile con piccole quantità di sarin, di botulina, di antrace e di altre sostanze letali da usare su obiettivi ad hoc. Ed è altrettanto certo che una parte degli hezbollah che hanno colpito e colpiscono le strade delle città di Israele si sono addestrati e sono partiti dall'Iraq.

La stessa difficoltà di comprensione riguarda la configurazione della risposta che gli USA e i loro alleati hanno dato immediatamente dopo l'11 settembre: l'intervento in Afghanistan è una operazione militare o un'attività di polizia? Punta a individuare e a neutralizzare gruppi di terroristi che in quella regione del mondo hanno le loro principali basi logistiche, ma non è né un intervento militare né una “retata” in senso proprio ed esclusivo. Prende dall'uno e dall'altra, per costituire qualcosa di specifico.

A proposito dell'intervento in Iraq, si è parlato di guerra preventiva, coniando un termine che ha una assunto accezione esclusivamente negativa. Questo termine va rifiutato, perché è fuorviante. Proviamo ad avvicinarci per approssimazione: la polizia viene a conoscenza che in un certo luogo – per es., in una villa - i terroristi stanno preparando un attentato contro la popolazione civile. Devono attendere che mettano in opera gli attentanti prima di intervenire? E, nel momento in cui circondano il luogo segnalato, invitano i terroristi ad arrendersi e a consegnare le armi, che cosa devono fare se i terroristi non eseguono l'ordine, e anzi minacciano gesti che potrebbero ledere i poliziotti, e anche la popolazione circostante? Se ci sono le condizioni per ottenere un successo, l'intervento con la forza all'interno della villa è polizia preventiva, da evitare a tutti i costi, o è uso legittimo delle armi nell'adempimento di un dovere?

3. Dopo l'11 settembre, piuttosto che impegnarsi in interminabili, e inutili, discussioni sulla legittimità della guerra preventiva, è necessario porsi il seguente quesito: premesso che governi-fiancheggiatori del terrorismo possono, pigiando il classico bottone, bombardare civili inermi con testate batteriologiche e chimiche, o anche nucleari, in tempi brevissimi, ci si può difendere dall'aggressore in modo diverso da quanto si è fatto in Iraq?

Al quesito va data risposta, sapendo che il presente e il futuro riservano e riserveranno sempre meno campi di battaglia fra eserciti contrapposti: il posto delle trincee viene e sarà preso dalle nostre case e dai nostri spazi pubblici (gli esercizi commerciali, gli stadi, gli aeroporti…), con guerrieri in borghese, il cui scopo non è quello di conquistare il territorio e di sfruttarne le risorse, ma è quello di sterminare le popolazioni, di distruggerne le civiltà, e - prima ancora – di paralizzare la vita quotidiana con la paura. Dipende anche dalla nostra capacità e dalla nostra volontà di cogliere questi mutamenti se il domani che ci attende sarà più o meno simile alla vita quotidiana di chi oggi risiede nello Stato di Israele; in proposito, non importa distinguere i torti e le ragioni che hanno determinato questa situazione a Tel Aviv o a Gerusalemme: importa che in quelle città ogni esercizio pubblico è presidiato da militari o da poliziotti per prevenire gli attentati (che peraltro continuano senza sosta).

Questa è la premessa. Rispetto alla quale negli ultimi mesi, e nelle ultime settimane, ci siamo imbattuti in una serie di luoghi comuni. Forse vale la pena riassumerli:

  • la guerra è stata decisa senza una deliberazione dell'ONU;
  • perché proprio l'Iraq? non ci sono prove del suo coinvolgimento in attività di terrorismo o nel possesso di armi di distruzione di massa;
  • comunque, le armi che ha le ha ricevute dall'Occidente, che per questo dovrebbe prendersela con sé stesso;
  • la vera ragione del conflitto è il controllo della produzione del petrolio;
  • il conflitto in Iraq rischia di provocare uno scontro fra religioni;
  • il Papa è contrario.

4. Parto dall'ultimo argomento. Vi è qualcosa di insopportabile nel modo col quale vengono presentati i discorsi e le esortazioni del Pontefice sulla guerra. Insopportabile per il costante uso della tecnica della estrapolazione, accompagnata dalla costante strumentalizzazione delle sue parole. Ma di questo ha già detto, e bene, Gerardo Incalza. Sarebbe bello che il Papa ricevesse la stessa attenzione anche quando parla di altri temi, rispetto ai quali la reazione ordinaria, quella politicamente corretta, è l'indifferenza; quando non l'opposizione aperta. Pensiamo ai ripetuti e accorati interventi di Giovanni Paolo II sull'aborto, sull'eutanasia, sugli esperimenti di ingegneria genetica, sull'integrità della famiglia, sulla libertà di educazione.

Qualche precisazione va fatta. Anzitutto, il magistero della Chiesa è infallibile sui principi, ma demanda la conoscenza dei fatti sui quali si applicano i principi a chi su quei fatti ha la responsabilità di intervenire. La Chiesa ha sempre vietato l'omicidio di un essere umano innocente, anche prima della nascita. Il principio immutabile è che la vita umana è sacra. Fino al 1620, la dottrina della Chiesa riteneva lecito l'aborto prima dei 90 giorni perché la scienza aristotelica negava la presenza dell'anima razionale prima dei tre mesi. Quando nacque la prima scienza embriologica l'aborto fu immediatamente riconosciuto come un delitto a tutti gli stadi: i giudizi morali cambiano non perché cambiano i principi, ma perché si perfeziona la conoscenza dei fatti sottoposti al giudizio morale. Lo stesso discorso vale per le decisione sull'uso della forza su questioni di ordine pubblico interno o internazionale.

Certamente è rozzo, ed è sbagliato, come ha fatto Famiglia cristiana, porre l'alternativa Bush o Giovanni Paolo II. Se mai sarebbe dovuto essere Bush o Saddam. E' stato incredibile assistere alla demonizzazione di Gorge W. Bush da parte di tanti esponenti di ambienti ecclesiali. E' un demonio Bush, che negli USA ha varato una serie di misure pro life (riduzione dei finanziamenti pubblici all'aborto, sanzioni pesanti per la clonazione), mentre è diventato un angelo Chirac: cioè colui che pone la più forte resistenza, in coerenza con i suoi presupposti ideologici, all'inserimento di ogni riferimento a Dio nel testo della costituzione europea.

5. Tornando al tema, nel Discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede del 13 gennaio 2003 il Pontefice ha detto fra l'altro: “«NO ALLA GUERRA»! La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell'umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l'esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell'uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi. (…) Che dire delle minacce di una guerra che potrebbe abbattersi sulle popolazioni dell'Iraq (…)? Mai la guerra può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per regolare i contenziosi fra le Nazioni. Come ricordano la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e il Diritto internazionale, non si può far ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni (…).”
Il presidente degli Stati Uniti d'America, sulla base delle informazioni di cui dispone solo lui, si è assunto “una grave responsabilità davanti a Dio, davanti alla propria coscienza e davanti alla storia”: così ha comunicato, il 18 marzo scorso, Joaquín Navarro-Valls, portavoce della Santa Sede. Ma questo è esattamente quanto insegna il n. 2309 del Catechismo della Chiesa Cattolica: «Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. […] Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune».

Il presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti d'America, S.E. mons. Wilton Daniel Gregory, il 19 marzo 2003 ha resa pubblica una Dichiarazione sulla guerra con l'Iraq, nella quale – al paragrafo intitolato Il ruolo della coscienza – afferma: “Pur mettendo in guardia dai potenziali pericoli morali dell'intraprendere questa guerra, abbiamo anche detto chiaramente che non esistono risposte facili. La guerra comporta gravi conseguenze, come potrebbe comportarle anche il non agire. Le persone di buona volontà saranno, potranno essere e sono in disaccordo su come interpretare la dottrina della guerra giusta e su come applicare le norme della guerra giusta ai fatti controversi di questo caso. Comprendiamo e rispettiamo le difficili scelte morali che devono compiere il nostro Presidente e quanti hanno la responsabilità di prendere simili gravi decisioni che riguardano la sicurezza del nostro Paese e del mondo.”

Vorrei segnalare, ancora, l'intervista rilasciata il 18 febbraio 2003 dal Segretario di Stato di Sua Santità, card. Angelo Sodano, al quotidiano Avvenire, e la dichiarazione rilasciata il 5 marzo dal card. Pio Laghi, inviato di Papa Giovanni Paolo II, dopo il colloquio con il presidente statunitense. Si tratta, quindi, di posizioni espresse prima dell'esplodere del conflitto.

Nell'intervista il card. Sodano sostiene che «la Santa Sede non è pacifista ad ogni costo, perché ammette la legittima difesa da parte degli Stati. Si deve piuttosto dire che la Santa Sede è sempre pacificatrice, lavorando intensamente per prevenire il sorgere dei conflitti».

Nella dichiarazione il card. Laghi afferma che «la posizione della Santa Sede è in due punti. Primo, il governo irakeno è obbligato ad adempiere completamente e pienamente i suoi obblighi internazionali riguardanti i diritti umani e il disarmo fissati dalle risoluzioni dell'Onu nel rispetto delle norme internazionali. Secondo, questi obblighi e il loro adempimento devono continuare a essere perseguiti dentro il quadro delle Nazioni Unite. La Santa Sede tiene fermo che vi sono ancora vie pacifiche nel contesto del vasto patrimonio di leggi internazionali e istituzioni che esistono per questo scopo. Una decisione riguardante l'uso della forza militare può essere presa solo dentro il quadro delle Nazioni Unite, ma sempre tenendo conto delle gravi conseguenze di un simile conflitto armato: la sofferenza del popolo dell'Iraq e di quelli che sono coinvolti nell'operazione militare, un'ulteriore instabilità nella regione e una nuova divisione tra l'Islam e la cristianità».

Non vi è quindi né un pacifismo a oltranza né di principio il rifiuto totale del ricorso alla forza militare per indurre l'Iraq all'adempimento completo degli obblighi di cui alle risoluzioni ONU. I termini della dottrina, del problema e dei timori sono esplicitati con serietà e con serenità.

6. Purtroppo, manca qualcosa. Manca l'ipotesi che l'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel cui quadro s'immagina di veder realizzata la soluzione del problema, si riveli a ciò non solo congiunturalmente, ma strutturalmente inadeguata. La situazione è espressa in forma felice dal prof. Pietro De Marco, dell'università di Firenze e dello Studio Teologico Fiorentino, in un recente studio intitolato Guerra: oltre il moralismo. Il prof. De Marco richiama il Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, n. 79), nella parte in cui esso insegna che “Fintantoché esisterà il pericolo di guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto a una legittima difesa”. L'ONU ha forse dimostrato di avere forze sufficienti per far rispettare la ormai celeberrima risoluzione 1441? Se l'ONU esorta e poi non ha mezzi efficaci per far rispettare le proprie decisioni, si limita alla semplice esortazione.

Scrive il prof. De Marco: «inidonea attualmente è l'Onu, perché fungendo con difficoltà da arbitro in condizioni ordinarie, non può essere l'arbitro delle situazioni eccezionali di conflitto. L'arbitro di una competizione, infatti, non può essere costituito dall'assemblea dei giocatori; è altro ed è, secondo diritto, il più forte: decide della sanzione e la rende efficace. È vero che nella comunità degli stati anche il più forte è uno stato tra pari. Ma nello “stato d'eccezione” quell'arbitro sarà necessario, e potrà essere rappresentato solo dal soggetto nazionale durevolmente affermatosi come capace, di fatto, di conservare quello stesso ordine per cui l'Onu esiste e di esercitare, seppure non da solo, forza coattiva sopra ogni altro soggetto in gioco. Questa sua doppia capacità fa del soggetto democratico più forte colui che decide dello stato d'eccezione, cioè colui che è temporaneamente il “sovrano”.

«Questo è sempre vero e operante de facto. E meglio sarebbe se si desse dello stato d'eccezione, e dell'arbitro (ovvero della figura rappresentativa) che esso individua, un razionale profilo de iure. L'Onu conosce dei mandati esecutivi, finalizzati alla repressione armata di un delitto, attribuiti a una data coalizione di forze. Ma il problema critico è la decisione, prima ancora dell'esecuzione. Il caso attuale è esemplare: l'Onu ha difficoltà a conferire un mandato proprio perché, sia come assemblea che come consiglio di sicurezza, offre costitutivamente uno spazio a ragioni, a interessi e a coalizioni che intendono sottrarre qualcosa al ruolo del paese dominante. Nel caso d'un grave pericolo per l'ordine internazionale in corso o potenziale dovrebbe invece essere attribuito allo stato democratico dominante un ruolo di arbitro che sanzioni i giocatori, dai quali non può e non deve dipendere finché la partita è in corso: ovvero il ruolo di rappresentante temporaneo dell'intera comunità degli stati con pieno mandato». Perciò — prosegue lo studioso — «non attribuire, nel caso d'eccezione, un mandato pieno agli Stati Uniti indebolisce proprio gli istituti e gli stati che glielo negano e che, con questo, mettono in gioco la loro stessa autorità sul piano internazionale. Infatti, facendo apparire gli Stati Uniti come gli attori di una guerra privata, queste istituzioni e questi stati, per mostrarsi innocenti al mondo musulmano e in genere al Terzo e Quarto mondo, si presentano, e si dichiarano, inermi di fronte all'emergenza. E se anche la “guerra degli Usa” non fosse attuata, ne uscirà ovunque rafforzata la certezza che non vi è effettiva capacità di coazione su scala mondiale se non da parte americana, e che anch'essa può essere neutralizzata senza eccessivi costi per i potenziali trasgressori, poiché a neutralizzarla provvede l'Occidente stesso».

Ancora: «La temibile crisi di Onu, Ue e Nato non è dunque quella che oggi è sotto i nostri occhi; potrà nascere dal mancato riconoscimento “costituzionale” della eventualità di stati d'eccezione nel mondo, e della conseguente legittimità degli Stati Uniti, soli titolari di un inedito imperium liberale (G. John Ikenberry), a decretare lo stato d'eccezione stesso e prendere — non soli — le misure conseguenti».

Il problema non è di scarso peso. Probabilmente oggi, rispetto al passato, emerge in tutta la sua dirompente drammaticità. Ogni grande conflitto è stato seguito, sul piano internazionale, da una fase “costituente”. Dopo la fine della Prima guerra fu costituita la Società delle nazioni. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale è stata costituita l'ONU, che ha caratteristiche, poteri e modalità operative in larga parte diverse da quelle della Società delle nazioni. Ma, sul piano del diritto, siamo rimasti fermi all'assetto del 1945, nonostante quello che di straordinario è accaduto nei 60 anni successivi. Si potrebbe dire, con una sintesi rozza (ma non distante dalle realtà), che nulla ha seguito in termini “costituenti” la fine della Terza guerra mondiale. Domanda: quando si è svolta la Terza guerra mondiale? C'è mai stata? Chi l'ha dichiarata? Chi l'ha vinta? La Terza guerra mondiale è iniziata nel 1945: è la c.d. guerra fredda, che ha avuto come principali contendenti gli USA e l'URSS. Non ha mai visto episodi cruenti di scontro diretto fra le due superpotenze, ma – insieme con la corsa agli armamenti – ha visto la moltiplicazione di conflitti su diversi scenari, dal S.E. asiatico al Centro America, dall'Africa all'Afghanistan.

E' terminata nel 1989, per abbandono di uno dei contendenti (volendo prendere in prestito un linguaggio pugilistico). Già nel 1945 l'assetto dell'ONU poneva sullo stesso piano, con eguali poteri, Stati che non avevano avuto esattamente il medesimo ruolo durante la guerra. L'attribuzione del diritto di veto all'interno del Consiglio di sicurezza, oltre che a USA, URSS e UK, anche alla Francia, costituiva una obiettiva anomalia, in relazione a ciò che era accaduto nel territorio di questo Stato durante il conflitto. Ma, al di là delle origini, considerare la fotografia del 1945 esattamente sovrapponibile alla realtà del 2003 contrasta col buon senso prima ancora che con la storia. L'ONU si rivela oggi inadeguato a garantire l'ordine internazionale, a identificare gli «operatori di guerra», a comprendere come si ripristina una pace vera, a stabilire delle sanzioni e a verificare che siano eseguite.

7. Una parola sulla posizione della Francia e della Germania, (e anche su quella di Russia e Cina). Non è arbitrario sostenere che la resistenza di questi Stati e la loro dissociazione dalla linea della fermezza USA hanno paradossalmente favorito la guerra, perché hanno convinto Saddam che l'Occidente fosse diviso, e quindi che l'ambiguità potesse proseguire (smobilizzo qualche missile, ma con calma). La stessa oggettiva (al di là delle intenzioni) collaborazione con Saddam è stata data dalle marce pacifiste (su questo tornerò fra un attimo; non senza aver ricordato subito che in certi casi la vicinanza a Saddam è stata resa esplicita: basta ricordare gli auspici di qualche autorevole pacifista a che la guerra fosse lunga, e il “tifo” che l'on. Pietro Ingrao ha riservato per il regime iracheno).

Nessuno di noi sa fino a che punto il petrolio è in grado di spiegare l'intervento USA in Iraq. Certamente spiega le resistenze degli Stati appena ricordati. Lo sfruttamento del petrolio irakeno ha visto impegnate prima del conflitto soprattutto le compagnie Lukoil (russa), Totalfina-Elf (francese), e la Cina. Ma c'è di più. In un recente libro del sociologo francese Pierre-Jean Luizard si ricorda “la distruzione, a La Seyne-sur-Mer nel 1979, a opera di agenti del Mossad, di materiale nucleare francese destinato all'Iraq". Nel settembre del 1974 il primo ministro francese dell'epoca va a Baghdad e incontra, fra l'altro, il responsabile dei servizi segreti del governo baathista del presidente Hassan al-Bakr, con cui avvia gli accordi per una fornitura nucleare francese. Nel settembre del 1975 lo stesso capo dei servizi segreti iracheni visita la Francia e sceglie il materiale nucleare del quale ha bisogno, la cui consegna è prevista nel 1979. Ufficialmente si parla di nucleare per uso civile, ma né gli israeliani né gli americani hanno dubbi sui reali scopi dell'Iraq. Il 6 aprile 1979, 48 ore prima che il carico nucleare parta da Tolone alla volta dell'Iraq, un commando del Mossad penetra nei depositi della società Constructions navales et industrielles de la Méditerranée, a La Seyne-sur-Mer, e distrugge l'hangar n. 3, che contiene la fornitura destinata agli iracheni. Il responsabile dei servizi segreti iracheni che negozia l'accordo con il primo ministro francese nel 1974 e si reca in Francia per perfezionarlo nel 1975, è un parente del presidente Hassan al-Bakr; nel luglio del 1979 — tre mesi dopo l'attentato israeliano a La Seyne-sur-Mer — lo deporrà e prenderà il suo posto: si chiama Saddam Hussein. Il primo ministro francese che incontra Saddam nel 1974 e nel 1975 e accetta di fornirgli il materiale nucleare avrà una lunghissima carriera che, fra alti e bassi, lo porterà alla presidenza della Repubblica Francese: è Jacques Chirac.
Non basta. Il CESNUR, Centro Studi sulle Nuove Religioni, ha pubblicato sul suo sito internet alcune informazioni di qualche interesse: il Sudan patisce un regime brutale che ha legami con il terrorismo internazionale. Il Sudan possiede tuttavia grandi ricchezze petrolifere, e molti esperti del settore pensano che il Sudan meridionale rappresenti il prossimo grande affare petrolifero mondiale, con enormi riserve ancora in gran parte inesplorate. L'attuale regime militare-fondamentalista di Khartoum ha concesso la maggior parte dei diritti sul petrolio del Sudan meridionale alla società francese TotalFina-Elf. C'è però un problema: finché al Sud le minoranze, in gran parte cristiane, che si oppongono all'islamizzazione forzata, non cessano la resistenza armata, le trivelle francesi non possono cominciare a operare. Per consentire ai petrolieri francesi – che già rischiano di perdere i lucrosi contratti con l'Iraq a suo tempo sottoscritti dal governo di Saddam Hussein – di mettere le mani sul petrolio sudanese, ci vorrebbe una “soluzione finale” del problema delle minoranze religiose del Sud. Il Sudan ha la forza militare per portare a termine una guerra di sterminio, ma potrebbe non avere la forza politica per resistere alle pressioni internazionali. Per gli interessi francesi, è obbligatorio che la comunità internazionale si disinteressi del Sudan. In sede ONU la Francia è contraria al rinnovo del mandato finora concesso annualmente agli ispettori incaricati di verificare la situazione dei diritti umani in Sudan; è contraria a qualunque condanna internazionale dello stesso Sudan. E' probabile che la Francia ce la faccia, tanto più che l'anno scorso altre manovre francesi (con l'aiuto di Cina, e Russia) hanno insediato alla presidenza della Commissione ONU sui diritti umani un rappresentante della Libia, e hanno escluso dall'esecutivo della Commissione gli Stati Uniti.

8. Tutto questo, se qualifica le ansie di pace della Francia, non sfiora minimamente i pacifisti. A proposito dei quali, mi permetto di ricordare quello che insegnava il card. Giacomo Biffi, pochi giorni prima dell'inizio della guerra del Golfo del 1991: “non possiamo accogliere un pacifismo che nelle tensioni internazionali si schieri sempre, qualunque cosa capiti, contro la stessa parte”. Ci è permesso porre qualche domanda? E allora: perché i pacifisti si attivano solo quando agiscono gli Stati Uniti o i loro alleati? Perché questi signori non scendono i strada per i cristiani perseguitati e uccisi in Sudan, Pakistan, Nigeria, Molucche, ecc.? Perché i pacifisti non hanno manifestato contro le guerre, le stragi, le torture e le esecuzioni di massa compiute da Saddam Hussein? Forse che i bambini curdi vittime dei gas del regime iracheno, o i figli degli oppositori torturati per far parlare i loro genitori sono meno importanti delle vittime civili del conflitto in corso? Perché i pacifisti non si indignano anche per la politica della Corea del Nord, che ha espulso gli ispettori Onu, e ha manifestato l'intenzione di produrre testate nucleari? Perché i pacifisti non dicono una parola sulle persecuzioni politiche a Cuba, con ergastoli e condanne a morte riservate, anche negli ultimi giorni, agli oppositori di Fidel Castro?

Tutto ciò è perfettamente coerente con quanto è accaduto nell'ultimo mezzo secolo: negli anni Cinquanta il movimento pacifista in Occidente era antinuclearista, tranne quando l'URSS si dotò di testate nucleari. Negli anni Ottanta i pacifisti non si opposero quando l'URSS puntò i suoi vettori atomici contro l'Europa; si opposero quando la Nato reagì dispiegando i propri missili.

E questo vale anche oggi nonostante che, a differenza del passato, la bandiera dominante nelle marce e nelle manifestazioni non è il rosso (che comunque è ben presente), ma è l'arcobaleno. Sulla bandiera della pace cf. M. Respinti su il Domenicale del 15.03.03. Le bandiere sono simboli, che rinviano a un pensiero forte. Nella bandiera ci sono la Patria, i propri morti, la propria famiglia, la propria terra, la propria casa. La bandiera dà il senso dell'identità, e quindi chiama in causa il popolo. Il popolo dà senso alla bandiera; la bandiera è la carta di identità del popolo. La bandiera della pace è una non bandiera, perché non ha in comune un popolo: chi la sventola non ha in comune un'affermazione, ma una negazione. No alla guerra, ma sì a che cosa? Se la pace non è fondata sulla giustizia, che pace è?

9. Siamo quasi al termine dell'elenco dei luoghi comuni. Si è detto in questi giorni: Saddam o Bin Laden in passato hanno ricevuto armi e denaro dall'Occidente. Lo stesso Occidente oggi li combatte, senza alcuna coerenza. Rispondo: al di là di chi ha finanziato i mostri, i mostri esistono e hanno vita propria. Non sono meno mostri per il fatto di essere cresciuti grazie all'Occidente. La rivoluzione bolscevica del 1917 e la rivoluzione nazionalsocialista di Hitler hanno ricevuto finanziamenti da Wall street: per questo non li si doveva fermare allorché realizzavano stermini di massa?

Concludo con due riflessioni. La prima: gli autori dell'attacco dell'11 settembre si sono qualificati come islamici. Dopo l'attentato da più parti si sono levate voci a difesa del “vero islam” da distinguere nettamente dal “falso”, cioè da quello dei terroristi. Il discorso è complesso. Sul punto possono riprendersi e approfondirsi le riflessioni del ministro dell'Interno Pisanu nell'intervista a Magmi Allam pubblicato circa tre mesi fa su la Repubblica, tese a individuare i percorsi necessari di una difficile convivenza civile con i musulmani presenti nelle società occidentali. Ma il dato certo è che nessuno può togliere ai terroristi islamici la qualifica di musulmani. Ed è un dato altrettanto oggettivo che nei paesi a maggioranza islamica agli occhi del comune fedele il terrorista è colui il quale fa ciò che si può o si deve fare, ma che solo pochi possono o hanno il coraggio di attuare.

Noi non possiamo dimenticare che la pressione dell'islam contro l'Europa è testimoniata dalla storia. All'inizio dell'Islam gli arabi divenuti musulmani s'insediarono in Sicilia, in Sardegna, e su tutte le coste del Mediterraneo Settentrionale. Penetrarono nell'interno dell'Italia: nell'846 saccheggiarono la basilica di San Pietro. Dalla loro comparsa fino al secolo XVIII, i corsari barbareschi infestarono il Mediterraneo. Praticarono la tratta dei bianchi. Ridussero in schiavitù centinaia di migliaia di persone. I turchi ottomani avanzarono in Occidente con una serie di pressioni dalla seconda metà del 1300, fino ad arrivare nel 1683 davanti a Vienna; meno male che nel 1480 l'ONU non esisteva, e quindi Otranto non ha avuto necessità di deliberazioni del Consiglio di sicurezza per decidere di resistere agli Ottomani. Quella resistenza (armata) ha salvato la Cristianità. Lo stesso discorso vale per la difesa di Vienna, nel 1683.

Il martedì nero di Al-Qa'ida ha colpito un simbolo statunitense, ma anche qualcosa di più profondo. Come spiega magistralmente Russel Kirk, nel suo Le radici dell'ordine americano, la sostanza dell'America deriva dalla sintesi di ciò che quattro grandi città le hanno trasmesso in termini di civiltà: Gerusalemme, con la sua fede nel Dio unico, Atene, con la sua filosofia perenne, Roma, con il suo diritto, Londra (la Londra medievale), simbolo dell'articolazione sociale. In questi termini, si può dire che esiste la Magna Europa, composta dall'Europa vera e propria, terreno nel quale affondano le radici culturali, e dall'America, coniata dall'uomo europeo e cristiano; esiste, cioè, l'Occidente. L'Occidente, piaccia o meno, è l'obiettivo del terrorismo di matrice islamica, e degli Stati che lo appoggiano a vario titolo. All'alba del terzo millennio cristiano, la Grande Europa è stata trafitta lì dove è percepita come più forte dalle organizzazioni terroristiche islamiche: nel cuore degli Stati Uniti d'America.

Ci si definisce soltanto opponendosi (G. de Reynold): non è un caso che il termine europei compaia per la prima volta in occasione della battaglia di Poitiers. È urgente per noi riprendere coscienza di noi stessi, fondandoci sui principi appena richiamati. E soprattutto, è urgenze per noi rafforzarci. Nel maggio '98 Bin Laden diceva a un giornalista dell'Abc: "Abbiamo visto negli ultimi anni il declino del governo americano e la debolezza dei soldati americani che sanno fare solo guerre fredde, e non hanno capacità di ingaggiare lunghi conflitti. Lo si è visto a Beirut dove i marines sono fuggiti dopo due esplosioni. Lo stesso fecero in Somalia. La nostra gioventù era sorpresa della debolezza degli americani. Dopo pochi colpi, fuggono sempre via sconfitti”. Gli islamici ci percepiscono come scorati e impauriti, specie noi europei. Opportunamente Bernard Lewis, in un'intervista rilasciata a La Stampa nel novembre 2001, a proposito della ricerca da parte dell'islam della grande rivincita, osservava: “Guai se non saremo forti”. L'assenza di una reazione forte da parte dei destinatari degli atti terroristici equivale (perdonate l'ovvietà) a far sapere che siamo deboli. E sui deboli si infierisce. Con i deboli nessuno tratta, li si annienta; in particolare, non trattano quei fedeli dell'Islam per i quali il Corano predica alla lettera lo sterminio dei miscredenti, con tutti i mezzi possibili.

Non credo che Lewis evochi una politica da gradassi. Credo che, consapevolmente o meno, faccia eco al motto di S. Ignazio di Loyola, che ha contribuito non poco alla formazione dello spirito europeo. Diceva il fondatore dei Gesuiti: “Fa come se tutto dipendesse da Te”. E' il senso del discorso sviluppato fino a questo momento. Ma subito dopo aggiungeva: “Prega, perché tutto dipende da Dio”.

Vi ringrazio.

 

 

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