ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
(Sezione:           Pag.     )
Domenica 20 Novembre 2005

Marco Seclì

L'intervista Il prefetto Bruno Ferrante, candidato dell'Unione alla poltrona di primo cittadino di Milano, racconta gli anni e gli amici del Liceo. Ma non solo

 

 

Un sindaco meneghino, tutto...leccese

«Questa devolution non mi piace. Lo dico chiaramente: non si può smembrare l'Italia»


 

Dal suo italiano «istituzionale», da diplomatico, qualche sia pur leggera inflessione salentina fa tuttora capolino. Segno che gli anni non sono riusciti a distruggere nemmeno nella pronuncia il legame con la città che gli ha dato i natali. Bruno Ferrante potrebbe diventare il primo leccese della storia a diventare sindaco di Milano. E si può star certi che, se ci riuscirà, all'ombra del Duomo sarà il primo «sponsor» di Lecce e del Salento. Prefetto Ferrante, da quanto tempo non torna a Lecce? «Ci sono venuto quest'estate, e ogni volta è un ritorno che mi emoziona. Riaffiorano i ricordi dell'infanzia, della prima giovinezza, riscopro i colori, i profumi, l'arte di una città che rimane nel mio cuore. Sono diventato cittadino milanese, mi sento milanese, ma non ho mai rinnegato la mia cultura d'origine e le tradizioni della mia terra».

Il suo percorso di vita e professionale lo ha però costruito lontano dal Salento.
«Sì, dopo la maturità al liceo classico Palmieri mi sono iscritto all'università di Pisa e da quel momento si può dire che ho reciso il cordone che mi univa al Salento. Terminati gli studi universitari, ho subito vinto il concorso nell'amministrazione del ministero dell'Interno e ho iniziato la carriera di prefetto. Sono approdato in Lombardia, ho lavorato per alcuni anni a Pavia, dopodiché sono arrivato a Milano».

Conserva ancora amicizie leccesi?
«Molte. Ho tanti amici dei tempi del liceo che ancora oggi mi scrivono, mi contattano. Ero compagno di classe dell'avvocato Fabio Valenti, di Gigetto Solombrino, adesso professore universitario di Fisica, del suo collega giornalista Mimì Caiaffa. C'erano anche Adriana Flascassovitti e Pierluigi Bernardini, che poi ha sposato Adriana e che oggi fa il medico a Roma, Gabriella Alemanno e molti altri. Ma sono rimasto molto legato anche al procuratore Cataldo Motta: eravamo insieme all'università e l'amicizia con lui ha contrassegnato quel periodo».

Quando torna a Lecce, cosa trova di cambiato rispetto alla città che aveva lasciato giovanissimo?
«Quando decisi di andar via, fui spinto soprattutto da una motivazione: a quei tempi mi sembrava che la società leccese fosse troppo chiusa, poco propensa ad aprirsi all'esterno. Era il periodo in cui Lecce, facendo una scelta che alla lunga si è rivelata intelligente, rifiutava il contatto con la grande industria. Si caratterizzava come città della giustizia, del grande Foro, e puntava già sui servizi e sulla cultura. Questo ha permesso di salvare il territorio, a differenza di quanto è accaduto a Taranto e a Brindisi. Al tempo stesso, però, la sua realtà andava stretta a un giovane che come me aveva voglia di allargare i propri orizzonti, di scoprire nuove situazioni. Così decisi di frequentare l'università lontano da Lecce e di fare carriera fuori. Oggi Lecce mi sembra diversa, cambiata, molto più aperta. Lo dimostra anche il fatto che produce grande politica. Un tempo esportare da Lecce un uomo politico era difficile, ora non più, sintomo che la città è stata capace di compiere un notevole salto di qualità. D'altra parte, ci sono aspetti rimasti immutati, fortunatamente. Continuo ad amare il centro storico di Lecce. Quando ritorno e me ne vado a passeggio per corso Vittorio Emanuele, in piazza Sant'Oronzo, è come se il tempo si fosse fermato e non mi fossi mai allontanato. Insomma, mi sento ancora a casa. L'atmosfera di Lecce resta sempre così avvolgente, ricca di umanità. Capisco bene chi ha fatto una scelta diversa dalla mia, come mio fratello Dario. Lui non si è mai voluto muovere da Lecce, credo che non la lascerebbe per nessuna ragione al mondo».

Con quali politici salentini ha avuto o ha tuttora un rapporto più stretto?
«Ho conosciuto numerosi politici leccesi, soprattutto negli anni in cui ho lavorato a Roma. Adriana Poli Bortone la conosco fin da ragazzo, in qualche modo siamo cresciuti assieme, ed è una persona che dedica alla sua città impegno ed energie. Ho molto frequentato Alberto Maritati, sottosegretario nel periodo in cui ero capo di gabinetto al ministero dell'Interno. Per non dimenticare Alfredo Mantovano: non ci siamo incrociati a Roma perché quando è stato nominato sottosegretario all'Interno io ero già prefetto a Milano, ma con lui c'è un rapporto antico, basato anche sull'amicizia tra le famiglie».

Due a uno per il centrodestra. Sarà per questo che, a quanto si dice, pur essendo il candidato dell'Unione piace anche ai suoi avversari...
«Ma io non posso essere definito uomo di parte. Lo dimostra la mia formazione umana, culturale, professionale. Un prefetto è uomo che ricerca gli equilibri, l'equidistanza. Naturalmente, quando si tratta di avere un confronto politico, come quello per l'elezione del sindaco, le cose possono cambiare. Però attenzione, io voglio comunque caratterizzare la mia candidatura rivolgendomi all'intera città, nessuno escluso. Tanto che sto dando vita a una lista civica che porterà il mio nome: tutte le forze politiche che vorranno aggregarsi saranno ben accette. Per il momento, ho registrato una simpatia da parte dei partiti del centrosinistra, ma c'è anche una grossa fetta di società civile che si è espressa favorevolmente alla mia proposta e a cui guardo con particolare attenzione».

Chi sceglierebbe come avversario, una volta vinte le primarie dell'Unione? Pensa di dover fare i conti con Letizia Moratti?
«Guardi, non mi interessa l'avversario. Chiunque sia avrà il mio rispetto, ma io mi preoccupo soprattutto di costruire un rapporto intenso con la città, con tutti i suoi strati sociali».

Lei non è certo arrivato a Milano con la valigia di cartone. Era un immigrato «privilegiato», ma pur sempre uno che arrivava da fuori. Si è mai sentito un «forestiero»?
«No, Milano ha sempre avuto la straordinaria qualità di annullare le diversità. È sempre stata città che ha accolto, città dell'impresa e del lavoro ma capace di grande generosità e solidarietà. Oggi contiamo oltre 150 distinte etnie e la popolazione è per il 15 per cento di origine straniera. Ciò non toglie che bisogna affrontare la questione elaborando nuove strategie di accoglienza, compito che non è stato assolto dalle ultime amministrazioni comunali».

E questo è uno dei motivi per cui lei ha poi accettato la proposta di candidatura del centrosinistra.
«Per cultura sono più portato a un approccio solidarista ai problemi. Ho già lanciato l'idea di uno specifico assessorato, che ho ribattezzato all'immigrazione e alla coesione sociale. Un organismo che avrà il compito di pensare alle politiche più giuste per favorire l'integrazione. Riuscendoci, se ne avvantaggerebbero non solo gli immigrati, ma tutta la città».

Devolution: lei è in corsa per diventare sindaco di Milano, la capitale del Nord, ma è anche uomo del Sud. Che giudizio dà della riforma?
«A me questa devolution non piace, e lo dico con grande chiarezza. Dico pure che si sbagliò già nel 2000 con la riforma del Titolo V della Costituzione. Oggi però si tratta di preservare l'unità del Paese. Non si può smembrare l'Italia demolendo una delle Carte costituzionali più belle al mondo, e non si possono creare competenze concorrenti che finiscono per risolversi in conflitti tra lo Stato e le Regioni, a danno dell'interesse dei cittadini. Io sono invece favorevole a un decentramento in grado di garantire migliori servizi alla gente. Se nel centrodestra non ci fosse stata la Lega, avrebbe accettato di candidarsi per la Cdl? «In verità, nessuno del centrodestra mi ha offerto una candidatura, ma se così fosse stato non avrei mai potuto accettare. Nella mia attività di prefetto sono stato spesso attaccato dalla Lega: come potevo collocarmi in un contesto che contemplasse anche il Carroccio?».

Se diventerà sindaco, quali saranno le sue prime mosse?
«Milano ha bisogno soprattutto di dialogo, perciò di un sindaco che torni a stare fra la gente. Sono anni che un sindaco non passeggia in galleria, per ascoltare gli umori dei milanesi, capirne le esigenze. È questa la prima cosa che farei».

E, sempre da sindaco di Milano, cosa farebbe per la sua vecchia città?
«Chissà, si potrebbe pensare a un gemellaggio Milano-Lecce. Sarebbe una grande occasione per valorizzare ancora di più le straordinarie bellezze della nostra città».

Scusi, quale città?
«Milano e Lecce, tutte e due».



 

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