ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL FOGLIO
(Sezione:ANNO X NUMERO 157 PAG I e IV - IL FOGLIO QUOTIDIANO)
MARTEDÌ 5 LUGLIO 2005

(ag)

Il monarca ridimensionato

 

 Fini placa i colonnelli ma deve ancora una risposta seria a 75 italiani su 100

Mantovano soddisfatto: “Si è parlato di identità, ma è solo l’inizio. Si abitui all’idea che si discuterà anche d’aborto”


 

Roma. Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno e dirigente di An fra i più polemici nei confronti di Gianfranco Fini e della sua svolta laico-referendaria, dice che “alla data del 4 o del 5 luglio posso considerarmi soddisfatto per come è andata l’assemblea nazionale. Ma questo esito è solo un punto di partenza”. Perché il presidente Fini, “fatto comunque notevole” avrà anche ammesso i propri errori sulla mancata discussione interna e sulla libertà di coscienza frettolosamente accordata a proposito della fecondazione; avrà anche fatto un passo indietro sulla modificabilità della legge 40 e chiesto scusa per i modi offensivi con i quali si è rivolto ai suoi dirigenti.

Ma non basta. “La questione originaria – spiega Mantovano – quella che ha dilaniato il partito alla vigilia dell’assemblea, quella che attiene al ruolo della destra di fronte alla necessità di recuperare principi e valori di cui in occidente c’è domanda sempre più crescente, ecco, tale questione va affrontata ancora”. Mantovano parte da un presupposto che secondo lui è “rimasto sullo sfondo dell’assemblea di An: la risposta da dare al 74 per cento di cittadini che hanno deciso di astenersi sul referendum”. Si tratta di cittadini che non saranno magari completamente univoci quanto ad aspettative e motivazioni, però è innegabile che questo “corpo sociale in parte religioso e in parte non confessionale si aspetta che un partito come An discuta e faccia chiarezza al suo interno su temi come il matrimonio gay, ad esempio. Temi che hanno accompagnato in America perfino le elezioni presidenziali e sui quali si è infatti contestualmente votato. Temi che hanno o avranno ripercussioni qui da noi, così come altri argomenti sono puntualmente giunti in Italia dopo essere stati dibattuti per mesi nei campus degli Stati Uniti”.

Il tentativo di parlare d’altro In realtà Fini ha riguadagnato tranquillità e fiducia in modo un po’ laterale rispetto a questa linea principale di frattura. “Nella relazione introduttiva ha dato l’impressione che il discorso sull’identità della destra fosse qualcosa di generico, se non di fastidioso. Forse anche per questo il presidente ha esordito attaccando così duramente le correnti”. Un modo per scartare. “Diciamo un buon argomento per parlare d’altro, e bene ha fatto Alemanno a rispondere che le correnti non c’entravano nulla, non erano il punto essenziale. E bene ha fatto Gasparri a rilevare che il referendum non riguardava – come pretendeva Fini – le contraddizioni tra la legge 40 e la 194, ma ammesso pure che sia così, nessuna remora ad avviare una riflessione sulla legge che disciplina l’aborto”. Insomma Mantovano si aspetta “fatti concreti e tangibili” e in questo senso guarda volentieri anche al possibile soggetto unitario di centrodestra, ma come a un progetto che, “nato in realtà ruotanti attorno a Forza Italia, deve coinvolgere An sempre a partire dai quei principi culturali con i quali il partito deve riformarsi”. Del resto, c’è un ordine del giorno che ormai impegna tutta la dirigenza finiana. “Infatti adesso si tratta di verificare se e come nelle prossime settimane verrà rispettato questo ordine del giorno sottoscritto da Fini e dai dirigenti del partito. Attenzione poi, oltre all’impegno per non effettuare nessuna retromarcia sulla legge 40, nel documento esistono una serie di punti ben precisi che un partito che non declami soltanto la propria identità, ma voglia realizzarla nei fatti – come dice Fini – non può eludere.

E questi punti coincidono con alcune priorità: il disegno di legge sulla droga, una risposta incisiva nei riguardi delle economie aggressive come quella cinese, il mantenimento degli impegni assunti nei confronti delle forze di polizia, la tutela delle fasce deboli penalizzate dall’euro”. Sempre che l’unità ritrovata da An non corrisponda soltanto a una pace fredda e armata. E a giudicare dalle esternazioni di Alemanno, sopraggiunte improvvise ad assemblea conclusa, sull’incompatibilità tra cariche istituzionali e cariche politiche (“non si può fare insieme il ministro degli Esteri e il presidente del partito”), nulla è così scontato. Forse il ministro dell’Agricoltura, che resta dimissionario dall’incarico di vicepresidente di An, poteva esaurire l’argomento in assemblea. “Alemanno si spiegherà bene da solo e io non sono certo un esegeta del suo pensiero, posso però supporre che non abbia voluto insistere in assemblea per evitare ulteriori distrazioni rispetto al centro della discussione, che è appunto l’identità di Alleanza nazionale”.

In realtà l’attacco tardivo che Alemanno ha portato ieri contro Fini può essere letto come un ripiego fuori tempo massimo per colmare un vuoto comunicativo con la propria componente. In particolare la base, che fino all’ultimo, fino a che Fini non ha sottoscritto l’ordine del giorno servitogli dai luogotenenti, era stata allertata per lo scontro definitivo con il presidente. Non a caso fra i cinque dirigenti di An che hanno votato contro Fini, oltre a Publio Fiori, figurano quattro esponenti della Destra sociale e non proprio di terza fila (uno di loro è Chicco Costini, presidente provinciale a Rieti). Non tutti erano stati avvertiti per tempo (e a pochissimi di loro era stato spiegato) che Fini si stava piegando a un documento allargato che di fatto smentisce la sua vaghezza culturale sulla legge 40, che consacra il commissariamento del suo ruolo di rappresentante ideologico di An, e che in più limita le sue prerogatiove monocratiche in materia di candidature elettorali.

L’effetto di tale sbavatura è che nella Destra sociale in molti non hanno ancora valutato il successo (non enorme ma indiscutibile) maturato nel contenzioso aperto con Fini. Da una parte c’era una corrente ingrossata pronta a infliggergli la sfiducia anche a costo di finire all’opposizione (e così sarebbe stato, perché la componente di Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa non assicurava un sostegno compatto), e che si è poi rassegnata a un accordo che comunque sancisce il tramonto della monarchia in An. Dall’altra un (ormai ex) sovrano giunto in assemblea con molta tracotanza e due certezze. La prima: i capicorrente non lo avrebbero sfiduciato per mancanza di numeri e coraggio, e perché consapevoli che altrimenti lui si sarebbe dovuto dimettere con il rischio di aprire involontariamente una crisi di governo (a che titolo un leader in minoranza avrebbe potuto rappresentare An alla vicepresidenza del Consiglio e alla Farnesina?).

Seconda certezza: la Destra sociale avrebbe ricercato una soluzione unitaria piuttosto che accontentarsi di fare l’opposizione con il 30 per cento dei consensi e due ministri da dimissionare (Alemanno e Storace). Soltanto quando gli è stato prefigurato, sabato notte, che Alemanno gli avrebbe votato contro, Fini si è davvero allarmato. Soltanto quando gli hanno annunciato, domenica, che le correnti avevano trovato un punto d’incontro in un ordine del giorno trasversale, Fini ha preso atto della propria solitudine. Adesso Alemanno gli riserva un ulteriore colpo. Ma così facendo, che voglia o meno tranquillizzare i suoi militanti o alzare un po’ il tiro, finisce per evidenziare le proprie leggerezze più di quanto non illumini le contraddizioni di un partito che giura fedeltà al suo leader perché non ha ancora trovato un’alternativa credibile. (ag)



 

vedi i precedenti interventi