ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su Secolo d'Italia
(Sezione:    Prima   Pagina   e Pag.    14)
Venerdì 26 novembre 2004

 

 

 Una concreta ventata di ibertà


 

La mole dei commenti sul taglio delle tasse concordato dalla maggioranza sembra offuscare la realtà, il significato e l’importanza delle decisioni che stanno per essere assunte. L’individuazione della effettiva posta in gioco deve partire da un quadretto a tutti familiare: il padre di famiglia che, a cadenza annuale, si siede a un tavolo carico di cartelle, mette in ordine una pila di documenti, e quindi passa dal commercialista, per ricevere il colpo di grazia del versamento dovuto. Lo Stato, esercitando una pressione fiscale che da almeno vent’anni ha superato ogni soglia di giustizia, ha privato le famiglie di una parte delle loro risorse, salvo poi concedere sussidi e detrazioni, in un quadro burocratico che di per sé incrementa gli elementi vessatori. È una realtà normale, cui rassegnarsi serenamente, o è un peso innaturale, che ci è stato imposto ma che potrebbe anche essere meno gravoso?

Di solito ci si pone il problema di come trovare le somme necessarie per coprire gli spaventosi disavanzi pubblici, dando per scontato che lo Stato debba spendere tali somme. La crescita della spesa pubblica e il conseguente prelievo fiscale – così per decenni ci è stato paternamente insegnato da sinistra – sono ingovernabili; dunque, è impossibile spendere meno. Si fa leva sull’invidia sociale, secondo lo slogan “La società è ingiusta: tu paghi, lui no”. In questo modo si pone uomo contro uomo, evitando che venga criticato il misterioso principio secondo il quale lo Stato deve essere necessariamente vorace: il problema, in altri termini, sembra essere l’evasore e non l’estensione dello Stato in ambiti non suoi, che esige sempre maggiori risorse. Se l’evasore fiscale è un soggetto che si comporta male perché viola il principio di solidarietà, sarebbe onesto chiedersi se la figura dell’evasore non sia effetto piuttosto che causa della persecuzione fiscale.

Altra tesi diffusa – soprattutto in quei gloriosi anni 1970 e 1980, durante i quali l’indebitamento pubblico è cresciuto vertiginosamente - è quella secondo cui lo Stato è in grado di impiegare le risorse economiche meglio di quanto non sappiano fare i privati. Lo statalismo dilata la spesa pubblica, e quindi la pressione fiscale. Per uscire dal circolo vizioso occorre rispettare concretamente – e non solo a parole – il principio di sussidiarietà: non un economista liberale, ma Pio XII, nel 1948, ricordava che i bisogni finanziari di ogni nazione sono aumentati a causa della estensione smisurata delle attività statuali, a sua volta esito di ideologie false che usano strumentalmente la politica fiscale. Quando lo Stato oltrepassa i propri compiti naturali, viola il principio di sussidiarietà e comprime le libertà concrete delle famiglie.

Il processo statalistico inizia in Italia dopo l’Unificazione: parte dalla statalizzazione della formazione; è accompagnato dall’abbattimento dei corpi sociali intermedi; assorbe realtà operanti nei settori dell’educazione, della sanità e dell’assistenza. Passa poi gradualmente alla statalizzazione della produzione (creazione di monopoli di diritto e di fatto, nonché di oligopoli a forte partecipazione statale). Finalmente statalizza l’aggregazione e perfino il tempo libero: in base alle teorizzazioni del liberalismo di origine bonapartista, ma soprattutto del socialismo, lo Stato deve praticare coerentemente la statalizzazione della cultura. La rivoluzione culturale esige una cospicua spesa pubblica, che ovviamente “giustifica” l’oppressione fiscale. Mentre in ossequio al principio di sussidiarietà andrebbe configurato uno “Stato minimo” (tanto Stato quanto è necessario), l’ideologia statalista afferma con arroganza che i settori di competenza dei privati vanno loro sottratti perché lo Stato è in grado di trattarli in modo perfetto. Questa tesi “giustifica” l’aumento dell’attività dello Stato, e quindi l’incremento dei tributi. Poco importa che la recente storia italiana dimostri, dati alla mano, che quando lo Stato entra in settori che non gli competono ordinariamente fallisce, dopo aver dilapidato risorse preziose.

Il 18 aprile 2003 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 80 “Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale”: filo conduttore della riforma è un cambio di rotta significativo rispetto al processo legislativo iniziato con la riforma tributaria del 1971, quando il fisco divenne compagno sgradito della vita quotidiana degli italiani. La l. 80/2003 è frutto di una visione politica che punta a ripristinare il corretto rapporto fra fiscalità e libertà. Il reddito viene visto come uno strumento di libertà personale; all’assistenza sociale viene preferito il risparmio fiscale: infatti, le detrazioni concesse dallo Stato non assicurano la stessa libertà che viene dall’uso delle risorse autonomamente guadagnate. La Cdl ridisegna il rapporto tra famiglie e Stato, ribadendo la centralità delle prime nella società civile. La politica fiscale della maggioranza si richiama al principio della giusta imposta: non ogni imposta è giusta per il semplice fatto che lo Stato – dall’alto – la impone. Non è lo Stato a “stare in alto”, bensì la persona. Lo Stato è solo un mezzo al servizio della persona. Il frutto del lavoro dei singoli e la proprietà privata vengono economicamente prima dello Stato; tale frutto non va sacrificato dal dovere fiscale oltre una giusta misura.

In che cosa consiste questa “giusta misura?” Silvio Berlusconi, intervenendo per i 230 anni della fondazione della Guardia di Finanza, ha affermato: “c'è una norma di diritto naturale che dice che se lo Stato ti chiede un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato sembra una richiesta giusta e glielo dai in cambio di servizi. Se ti chiede di più o molto di più, c'è una sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità e che non ti fanno sentire colpevole”. Il premier parla di un “diritto naturale”, il quale giudica le leggi dello Stato (cioè sta prima e al di sopra delle leggi dello Stato): diritto naturale che ognuno di noi scopre leggendo nel proprio “intimo sentimento di moralità”. Questo principio è fondamentale (applicando il medesimo principio alla difesa della vita, si capisce come non sia giusto sacrificare un uomo prima che nasca o sottoporlo a sperimentazioni solo perché una legge dello Stato lo permette). Non a caso questa affermazione di Berlusconi è stata immediatamente subissata di critiche da sinistra: in attesa della caduta di quel “muro nella mente” che è ancora in piedi, nonostante il 1989, in gran parte degli esponenti dell’ex Ulivo in cerca di nuovo nome, il Centrodestra lavora per rimuovere ostacoli; perché una ulteriore ventata di libertà concreta entri nelle case degli italiani.

Alfredo Mantovano
    

 

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