ALFREDO MANTOVANO

DEPUTATO AL PARLAMENTO ITALIANO


E un decreto blocca la norma costituzionale

 

Qualche giorno prima di Capodanno 51 persone finiscono in carcere, in esecuzione di tre differenti ordinanze dei Gip di Brindisi e di Lecce, per reati gravissimi, che vanno dalla violenza sessuale al traffico di droga; due giorni fa le stesse persone vengono rimesse in libertà, in esecuzione di un'ordinanza del Tribunale del riesame, che ha rilevato nei provvedimenti dei Gip una carenza di motivazione. Interessa poco (interesserà di più in altre sedi) stabilire se gli arrestati siano realmente colpevoli; colpisce l'oggettiva gravità della vicenda, comunque vadano le cose: se infatti gli arrestati saranno riconosciuti innocenti, vorrà dire che hanno trascorso alcuni giorni dietro le sbarre ingiustamente, e senza nemmeno sapere perché, con imputazioni infamanti (è un danno che qualcuno potrà mai risarcire?); se invece saranno condannati, il mancato adempimento da parte dei Gip dell'essenziale obbligo di motivazione sarà stata la causa di un ritorno in libertà altrettanto ingiusto, magari seguito dall'avvicinamento delle vittime, a scopo di minaccia o di dileggio (è un danno che qualcuno potrà mai risarcire alle vittime?).

Che cosa c'entra questo col "giusto processo"? Assolutamente nulla. E non c'entra nulla nemmeno con il "giudice unico". Ma è proprio questo il punto della questione: le riforme legislative, anche di rilievo costituzionale, si accavallano e si sovrappongono, spesso con scarso reciproco coordinamento e con generale confusione. Il loro scopo dichiarato è di accentuare per un verso le garanzie, per altro verso la funzionalità della giustizia. Ma, ammesso che fra gli interventi di riforma ce ne sia anche solo uno valutabile positivamente, serve a qualcosa se manca il concorso di chi è chiamato istituzionalmente ad applicare la legge? Non c'è bisogno di una riforma costituzionale per stabilire che un'ordinanza di custodia cautelare in carcere va motivata, dal momento che da anni, con articolazione più o meno ampia, lo prescrive in modo tassativo una disposizione del codice di procedura penale. Se ciò in concreto non accade, non deve provocare un nuovo intervento del legislatore.

Scrivo questo non per adoperare in modo improprio lo spazio che Quotidiano mi offre per denunce altrettanto improprie. Ma solo per sottolineare, con l'ennesimo caso che la più recente cronaca salentina pone all'attenzione, che ogni legge cammina con le gambe degli uomini che la applicano, anche quella che sembra la più solenne e indiscutibile. Fra gli uomini, oltre ai giudici, esistono il personale e le strutture amministrativi che dovrebbero garantirne la funzionalità. E questo è il secondo - certamente il primo per estensione quantitativa - dei tasti dolenti relativi alle più recenti riforme, del tutto estraneo al merito delle decisioni del legislatore. E' certo che, al di là di aspetti discutibili intriseci alle modifiche, il "giudice unico" fallirà:

se in tempi rapidi non saranno riempiti i vuoti negli organici dei magistrati; le scoperture sono pari attualmente a circa il 10%, ma il ministero della Giustizia non riesce a completare nessun nuovo concorso da circa tre anni, da quando cioè ha preteso di cambiarne le regole senza avere gli strumenti per farlo;

se non verranno assunte le migliaia di vincitori di concorso per le varie qualifiche amministrative nell'ambito della giustizia; il Consiglio dei ministri finora ha autorizzato l'assunzione di una percentuale ridottissima di vincitori, contribuendo alla situazione di quasi paralisi nella quale si muovono gli uffici;

se non verranno effettuati immediati investimenti nell'edilizia giudiziaria.

Certo, esistono i problemi legislativi. Che sono importanti e che non vanno trascurati. Ma non vanno neanche enfatizzati. Il ministro della Giustizia si è convinto, e ha cercato - riuscendoci - di convincere il governo, che il "giusto processo" non avrebbe potuto diventare pienamente operativo senza un decreto legge di attuazione. E' un postulato non vero, perché la nuova norma costituzionale è perfettamente in grado di funzionare da sola, lasciando alla giurisprudenza l'interpretazione di aspetti che appaiono ancora generici e imprecisi; per intendersi: il nuovo art. 111 della Costituzione stabilisce che nessuno può essere condannato sulla base delle dichiarazioni di chi si è volontariamente rifiutato di sottoporsi al contraddittorio. Che cosa impedisce ai giudici di riempire di contenuti l'avverbio "volontariamente", e quindi riscontrare in un caso concreto, per es., una intimidazione al testimone che lo ha sconsigliato dal deporre in dibattimento?

Il governo l'ha pensata diversamente, e ha varato qualche giorno fa un decreto legge che, con riferimento ai processi in corso, preclude l'operatività della riforma costituzionale per i processi per i quali sia stato aperto il dibattimento. Vorrei invitare a riflettere soltanto sul dato formale: con un decreto legge (che potrebbe anche non essere convertito) viene impedito il vigore di un articolo della Costituzione! Esistono precedenti simili? Il merito è tecnico, e può interessare fino a un certo punto. Quello che è certo è che, grazie anche all'iniziativa del governo, il lavoro delle Camere si presenta più difficile e confuso.

Alfredo Mantovano


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