ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su Il Messaggero Veneto Domenica 12 maggio 2002

di GIORGIO LAGO

 

Immigrati, scontro sulle impronte ma la schedatura arriva in aula
Cofferati: un 'idea insensata. Fini: non c'è nulla di scandaloso

 


La mia carta d’identità, numero AD 214... eccetera, è stata per esempio rilasciata dal Comune di residenza a fine ottobre del 1998. Nella terza facciata del documento appare in alto la mia fotografia mentre in basso, a sinistra, c’è un rettangolo bianco di sette centimetri quadrati con la seguente intestazione: “Impronta del dito indice sinistro”. Come in tutte le altre, l’impronta digitale naturalmente non esiste perché in Italia si è soliti scherzare perfino con i connotati e i contrassegni personali dei cittadini: nella sua officina poligrafica di Roma, lo Stato prima stampa carte d’identità adibite alle impronte, poi lascia perdere e va in bianco. Dice adesso il sottosegretario all’interno, onorevole Mantovano, che «le nuove carte di identità elettroniche già prevedono le impronte digitali» per tutti, sia italiani che immigrati. Sarebbe ora che lo Stato facesse sul serio, senza guardare in faccia nessuno e proprio per questo a vantaggio di tutti.

È arcinoto, infatti, che con la foto puoi fare ogni trucco; con l’impronta no. Da un secolo a questa parte è questo lo strumento infallibile di identificazione, perché le impronte sono come le persone: prive di doppioni. Un magistrato di Padova e la polizia di frontiera di Gorizia mi dimostrarono tempo fa che, soprattutto con i clandestini nordafricani ma ovviamente non soltanto con loro, addirittura l’identità nazionale era spesso un rebus. Spessissimo bastava una piccola variazione nella grafìa araba per farsi passare come tutt’altra persona o di tutt’altra nazionalità, una, due, tre volte, anche di più.
Nel nome della certezza (personale) e della sicurezza (collettiva), allo Stato servirebbero ovviamente le impronte digitali di ogni cittadino. A maggior ragione ne ha assoluto bisogno di fronte al fenomeno dell’immigrazione, ovunque stressata proprio da quella terra di nessuno che si chiama clandestinità: anche un neonato capirebbe la differenza e capirebbe pure che qui non c’entra un cavolo la dignità della persona, ma soltanto l’efficienza dei controlli. I telefonini cellulari servono anche a identificare assassini; le telecamere fisse aiutano pure a sventare rapine. La prevenzione vale più della privacy, con il surplus del dopo 11 settembre.

La sicurezza è in questo momento il tema con precedenza assoluta in Europa, dalla Francia all’Olanda, dall’Inghilterra all’Italia. Non è ridicolmente un tema della destra e/o della sinistra: è un problema e basta, tanto di Berlusconi quanto di Rutelli. L’anno scorso, una ricerca della Fondazione Nord Est segnalò che «Italia e Gran Bretagna combinano un elevato livello di apertura verso i diritti di cittadinanza con un alto grado di paura verso l’immigrazione». Che vuole dire? Vuol dire che ben il 77 per cento degli italiani si dichiara prontissimo a riconoscere per esempio il diritto di voto amministrativo agli immigrati ma purché regolari, purché paghino le tasse e così abbiano il lavoro per carta d’identità. Nell’affrontare le “paure” occorre puntare sui “diritti”, non ci sono santi, ma evitando di fare gli struzzi ipocriti quando le cose non ci piacciono. Senza fare confusioni da beoti, negli anni Novanta qualcosa è capitato anche per quel che riguarda la popolazione carceraria. Un dato solo. Nel 1990, su 56 mila detenuti in totale, gli italiani erano 47 mila, gli stranieri 9 mila. Nel 1999, sul totale di 87 mila, gli italiani erano 58 mila, gli stranieri 29 mila. In dieci anni, il trend e le proporzioni sono queste. Fra l’altro, il Nordest è un luogo assolutamente privilegiato per cogliere al volo sia le potenzialità che i problemi di questo fenomeno d’epoca. Le ragioni sono più d’una.

Da un lato perché è territorio di frontiera e di mare; perché dà lavoro e cerca lavoratori; perché ha un formidabile volontariato, soprattutto cattolico, dell’accoglienza; perché gli imprenditori e i sindaci hanno capito benissimo che senza casa il lavoro resta nella precarietà umana. Ma dall’altro lato perché la gente sente con molta forza il pericolo dello spaesamento generale e, dunque, resta più che mai convinta che soltanto la sicurezza possa far incontrare le plurime identità (locali) con le plurime integrazioni (extracomunitarie). Il crogiolo multietnico del Nordest non sarà lo storico “melting pot” degli americani, ma è una rivoluzione forza sette. Se domattina si aprissero gli sportelli dell’anagrafe per raccogliere l’impronta del dito indice sinistro, sono convinto che ci troveremmo tutti in coda: italiani regolari ed extracomunitari regolari. Chi ha paura dell’inchiostro?


 

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