ALFREDO MANTOVANO

DEPUTATO AL PARLAMENTO ITALIANO

 

Giustizia fra relativismo e ricerca del vero

 

Scrive Gaetano Filangieri che il processo serve a togliere al giudice ogni arbitrio, all’avvocato ogni sospetto e al colpevole ogni speranza. C’è da chiedersi, a distanza di due secoli, se questi obiettivi sono oggi realmente perseguiti, prima ancora che raggiunti. Quanto sia tenuto lontano l’arbitrio del giudice dalle aule di giustizia è ben documentato dall’elevato numero di procedimenti disciplinari e di processi penali attualmente pendenti a carico di magistrati, spesso per fatti che non sono bagattelle, e non infrequentemente per questioni connesse all’esercizio della funzione. Quanta fiducia abbia l’avvocato nell’amministrazione della giustizia è testimoniato, fra l’altro, dalla circostanza che poche settimane fa, per la prima volta nella storia, gli avvocati hanno scioperato per contestare una sentenza della Corte costituzionale, cioè del massimo organo giurisdizionale esistente in Italia. Quanto alla speranza del reo, che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza, essa è ben alimentata da una legislazione processuale e sostanziale lassista, ma prima ancora dalla sicurezza pressoché assoluta dell’impunità derivante dalla difficoltà di individuare gli autori dei reati, e dall’aggiunta difficoltà, una volta che gli stessi sono stati processati e condannati, di mandarli a espiare una pena.

Perché raggiungere quegli obiettivi appare oggi una chimera? Perché è sfuggita, anche soltanto sul terreno dell’affermazione teorica – al di là di qualche passaggio di sentenze dei giudici della Consulta - , l’identificazione del fine prioritario del processo, che un illuminista come Filangieri poteva permettersi il lusso di ignorare, ma che una visione del mondo ancorata a valori certi non può far trascurare; il fine principale del processo è la contestuale ricerca della verità del fatto sottoposto all’esame del giudice e del vero autore di esso, una volta accertatane l’illiceità. L’impunità oggi diffusa è figlia di più madri; esistono certamente delle cause prossime, addebitabili a scelte politiche dissennate della sinistra, che hanno penalizzato il lavoro delle forze dell’ordine, e in particolare della polizia giudiziaria, hanno ridotto gli organici, hanno perseguito la dequalificazione del personale, hanno privato quest’ultimo di strumenti operativi essenziali. Esistono delle scelte operative di rilievo politico, che dipendono dagli indirizzi forniti dalle grandi amministrazioni: se, sulla base delle direttive del ministero delle Finanze, la Guardia di Finanza viene impiegata per accertamenti fiscali – che peraltro competono agli Uffici Imposte – invece che per seguire e contrastare la criminalità economica, quest’ultima opera in tranquillità, inquinando pesantemente il tessuto economico e sociale. Esistono cause di ordine legislativo, che hanno fatto crescere, mattone dopo mattone, un edificio normativo sul quale campeggia la scritta ‘chi sbaglia non paga’: basta pensare alle maglie larghissime della legge Gozzini. Ma fermarsi a questo fa cogliere soltanto alcuni aspetti, pure importanti, della realtà; non li inquadra tutti, e soprattutto non quelli essenziali.

Lo scopo di questa sezione di approfondimento, che Percorsi ha inteso dedicare ad alcuni aspetti della ‘questione giustizia’ non è quello di esporre dati tecnici per addetti ai lavori, bensì di sottolineare che, al di là della cronaca quotidiana, ma anche della Gazzetta Ufficiale, non vanno dimenticate le radici storiche e culturali dei fenomeni, a meno di volersi privare di strumenti importanti per interpretare correttamente le vicende quotidiane. Mario Cicala, giudice alla 1^ sezione civile della Corte di Cassazione e magistrato da decenni in prima linea nel dibattito giudiziario – oggi è segretario generale dell’A.N.M. – affronta il tema delicatissimo dei rapporti fra potere statale, uso della forza e principi morali. Domenico Airoma, pubblico ministero a Napoli, impegnato nel contrasto alla criminalità di tipo mafioso di quella zona, illustra le dimensioni e le caratteristiche attuali del crimine organizzato, senza allarmismi e senza sociologismi, ma anche senza dimenticare che questi fenomeni – che vanno conosciuti nella loro realtà, superando la facile mitologia - nascono e si sviluppano in assenza della capacità di aggregare delle realtà sociali naturali. Mauro Ronco, ordinario di diritto penale all’università di Modena e autore, fra le altre, di fondamentali monografie sulla tossicodipendenza e sulla funzione della pena, si sofferma su quest’ultimo aspetto, dimostrando come la vanificazione della punizione del reo da parte dell’autorità parte dalle tesi filosofiche utilitaristiche, avanzate in parallelo all’allontanamento da una prospettiva ideale tradizionale. Si tratta di contributi significativi, che rivelano la concreta possibilità, negata da chi fa coincidere i termini di ‘cultura’ e di ‘sinistra’, di affrontare a testa alta questioni di strettissima attualità, contribuendo a un dibattito sempre più schiacciato sull’emergenza quotidiana, pur se si parte da un quadro di riferimento ideale ancorato a principi permanenti.

L’approfondimento culturale di questioni fondamentali è l’antidoto più efficace per sfatare l’immagine che lo schieramento politico italiano di centro-destra nel suo insieme ha dato di sé soprattutto agli esordi (salve le distinzioni, che tuttavia non sono sempre percepibili): quello di una sostanziale inaffidabilità sui temi della giustizia; con troppa frequenza, pur partendo da dati di fatto reali e oggettivamente fondati, è prevalso un atteggiamento di protesta e di attenzione monotematica ai tasti della garanzie, mentre un’attenzione pari, se non superiore, non è stata dedicata alla prevenzione e alla repressione del crimine. Non è, evidentemente, soltanto un problema di rapporti con la magistratura; il discorso riguarda, più in generale, la posizione nei confronti dell’intero settore-giustizia. E’ difficile immaginare passi in avanti seri se non si prova a rispondere a domande chiave, dalle quali dipendono scelte legislative e comportamenti amministrativi: che cos’è la giustizia? Quali sono i suoi parametri? Qual è la funzione del processo? A che cosa serve la pena?

Alla riflessione tematica e di quadro va poi affiancata una pacata ricostruzione storica e contenutistica, che legga, sulla base dei documenti esistenti, quanto accaduto nell’amministrazione della giustizia in Italia dalla fine della guerra, e quindi in modo specifico nella magistratura italiana, come una delle modalità di sviluppo della strategia gramsciana di conquista del potere attraverso la conquista delle istituzioni, in parallelo a ciò che negli stessi decenni è avvenuto nella scuola, nelle Università, nel mondo del lavoro e sindacale, nella sanità... La scheda storica, indispensabile per comprendere i movimenti oggi in atto nel mondo della giustizia, non dovrebbe ignorare alcuni passaggi essenziali: la costituzione di Magistratura democratica, con la formazione delle "correnti" dei giudici; il profilo ideologico di Md e i riflessi di quell’ideologia sulla giurisprudenza; il collateralismo fra Md e la sinistra; il fiancheggiamento da parte di Md delle formazioni eversive, per lo meno fino alla metà degli anni 70; il mutamento di prospettiva della sinistra giudiziaria alla fine degli anni 70, mantenendo il collateralismo col Pci e orientando le indagini sulle stragi e sui contatti della sinistra con paesi terzi (in primis, l’URSS); la formazione, alla fine degli anni 80, di una seconda corrente di sinistra (i Movimenti riuniti) e la sua caratterizzazione, con riflessi nella sinistra politica; infine, "mani pulite" e il suo strabismo, e la vera e propria teorizzazione, che vi è stata e ha conosciuto echi in dibattiti all’interno del C.S.M., della lotta giudiziaria alla Fininvest e al Polo. Il tutto forse contribuirebbe a spiegare, o comunque a far comprendere, la nuova identità della magistratura secondo un progetto caro alla sinistra liberal (ma che incontra singolari simpatie in qualche sedicente "esperto" di area opposta), che prevede sul piano strategico l’unificazione delle giurisdizioni e l’assorbimento in un’unica "authority", e sul piano tattico una sinistra che anche sui temi della giustizia riesce a essere al tempo stesso maggioranza e opposizione.

Al primo posto, quasi in chiave pregiudiziale, si pone il tema dei rapporti fra verità e giustizia; e quindi, fra verità e processo. Ha scritto Hans Kelsen, massimo teorico della concezione puramente formale dello Stato, che ‘il diritto, come ordine, o l’ordinamento giuridico è un sistema di norme giuridiche’, e ‘queste sono valide in forza del loro contenuto’, ma ‘una norma vale come norma giuridica, sempre e soltanto perché è nata in un modo particolarmente stabilito, è stata prodotta da una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico’. E’ l’esatto contrario della nozione di diritto maturata in secoli di civiltà tradizionale e cristiana, secondo la quale ‘il diritto non è creato dal potere, la (…) la missione di questo sta nell’applicarlo e nel sanzionarlo’ (Juan Vallet de Goytisolo). Per Kelsen, al contrario, ‘la norma fondamentale di un ordinamento giuridico non è null’altro che la regola fondamentale per la quale sono prodotte le norme dell’ordinamento giuridico’. Per chi è ancorato a una visione tradizionale, la giustizia presuppone l’esistenza di principi stabili, rintracciabili nella natura stessa dell’uomo, e il processo penale è lo strumento attraverso il quale il giudice – certamente non a ogni costo, ma rispettando regole poste a tutela della dignità dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria - opera una ricerca di elementi di fatto che facciano riaffermare i valori negati da chi ha tenuto un comportamento contrario al diritto. Per chi ritiene che la natura non rappresenti un dato normativo, bensì un postulato culturale variabile coi tempi e con le opinioni, la giustizia è un puro sistema di relazioni intersoggettive fra gli individui e il processo penale, lungi dal costituire lo strumento per accertare la verità del fatto-reato (lo ripeto, nel rispetto delle regole e dei limiti umani), rappresenta invece il luogo della definizione di interessi contrapposti.

Scrive in proposito Franco Cordero, uno dei più illustri processualisti italiani, sostenitore della concezione formale del diritto, nell’introduzione a un suo manuale di procedura penale, studiato in numerose facoltà di giurisprudenza: "(…) non esistono vie privilegiate d’accesso alla verità, e anzi il pudore delle idee suggerisce un uso sempre più avaro di questa parola lustra; "vero" significa "conforme a date prescrizioni" e di una conclusione diciamo che sia vera quando risulta correttamente ricavata secondo determinate tecniche operative". E ancora: "(…) l’illecito non è un comportamento contrario al diritto (…) ma una delle condizioni richieste per l’avvenimento giuridico chiamato ‘sanzione’". E infine: "(…) la mistica dei valori genera l’inquisizione, una macchina stupidamente persecutrice". Si segua per un istante l’impostazione di Cordero, annualmente proposta senza alternative a migliaia di studenti universitari: se non esiste una verità oggettiva; se è inimmaginabile un nucleo di precetti essenziali da essa derivanti – non uccidere, non rubare, non dire il falso… - che ogni civiltà, fin dai tempi più remoti (e pur con tutti gli adattamenti e le mutilazioni) ha riconosciuto e tenuto a fondamento delle proprie leggi; se è di per sé inconcepibile e relativa anche la verità del caso concreto, fino al punto che lo sforzo teso a raggiungerla (non la pretesa di ottenerla a ogni costo) è indicato come pericoloso, fonte di arbitrii e come "una macchina stupidamente persecutrice"; se si pongono tutte queste premesse, non deve meravigliare la conclusione: il "come" pervenire a un determinato esito giudiziario è più importante della conformità al reale di quell’esito. Il processo che parte pregiudizialmente dal rifiuto della verità è più importante della verità. Le modalità attraverso le quali si perviene alla conclusione del giudizio sono più importanti della riaffermazione del diritto violato. Il rito è fine a sé stesso e prescinde dalla giustizia.

Per questo – anche per questo - la giustizia latita. Per questo il crimine dilaga. Per questo i processi si dilatano a dismisura e diventano una sorta di chiave interpretativa del vivere quotidiano, arrotolata su sé stessa al punto da ricevere una spropositata attenzione massmediatica. "(…) l’affermazione meramente ‘formale’ della legalità – ricordava Giovanni Paolo II l’8 luglio 1991, ricevendo i partecipanti a un convengo sulla legalità- senza effettiva incisività nei comportamenti concreti finisce per favorire una illegalità di sostanza, fatta di compromesso e di corruzione (…). E’ chiaro, pertanto, che ogni azione mirante al recupero della legalità deve necessariamente partire dalla riaffermazione di questi valori fondamentali, senza i quali l’uomo è offeso nella sua dignità originaria e la società è intaccata nel suo nucleo più profondo". Senza strumentalizzare il monito pontificio, ma con la dovuta attenzione per il suo contenuto, è il compito che dovrebbe porsi una politica della Destra per la giustizia.

 

Alfredo Mantovano