ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL FOGLIO
(Sezione:  IL FOGLIO QUOTIDIANO  Pag.   II   )
Giovedì 8 Maggio 2003

 

 

Mantovano non ama essere definito il Violante della destra e dice che è per il lodo Maccanico


 

Al direttore - Con tutto il rispetto per l'onorevole Violante, la lettura dell'articolo sulla prima pagina del Foglio di sabato scorso, per la parte che mi riguarda, non è stata piacevole. Avendo chiaro il senso delle proporzioni, e quindi non volendo peccare di presunzione, non credo che l'ex presidente della Camera gradirebbe di essere qualificato nel suo schieramento come l'equivalente di un personaggio dello schieramento opposto. Ma non è solo un problema formale: se è necessario per far piacere a qualche redattore del suo giornale, potrei anche sforzarmi di citare a memoria più passaggi dell' "Elogio del boia" del grande de Maistre; mi pare però che il senso di quell'articolo, e soprattutto il tema, sconsiglino le facezie. e impongano di andare alla sostanza.

Con riferimento alla sostanza, per quello che può interessare, condivido senza incertezze l'ipotesi di sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato, che prende corpo in questi giorni. Una condivisione reale, non tirata per i capelli, fondata su almeno tre ordini di argomenti:

a) di merito. Per la considerazione che ho dei suoi lettori, non richiamo le argomentazioni che si trovano a piene mani nei testi di diritto costituzionale e penale sulla necessità che un ordinamento abbia al proprio interno garanzie del genere. Al rimprovero, che certamente sarà rivolto a quella destra che nel 1993 convintamente votò per l'eliminazione dell'immunità, è onesto rispondere riconoscendo un comportamento allora condizionato dal contesto. Sarebbe diabolico oggi non fare un bilancio sereno delle conseguenze derivate da quella eliminazione, e non tenerne conto;

b) di opportunità. Dovremo sorbirci mesi e mesi di rievocazioni delle origini storiche dell'immunità. Costituzionalisti eccelsi ci diranno che oggi non esiste, come nell' Inghilterra del tempo che fu, una Corona dai cui attacchi difendere l'autonomia dei gruppi politici presenti nel Parlamento. E trascureranno la circostanza che quegli attacchi passavano - che combinazione! - dall'amministrazione della giustizia in nome del Monarca. Oggi manca il Re, e il procuratore presso il tribunale è della Repubblica e non del sovrano. Ma i rischi di limitare impropriamente l'azione di un governo che ha ricevuto il consenso elettorale provengono da un esercizio altrettanto improprio della giurisdizione. Non è tanto (o soltanto) un problema di correnti nella magistratura. C'è anche questo: come dimenticare il costante rinvio di Magistratura democratica alla "funzione di indirizzo politico propria della giurisdizione"? Ma vi è qualcosa di più, che e maturato nell'ultimo decennio: la convinzione di un numero crescente di magistrati, non sempre schierati a sinistra o collaterali a partiti della sinistra, che il ruolo del giudice oggi è sì quello di valutare singoli fatti eventualmente illeciti commessi dai politici (e fin qui nulla quaestio), ma altresì quello di controllare la politica nel suo insieme. Tutto ciò non è il frutto di deduzioni sospettose e maligne: è stato teorizzato, illustrato in scritti e in convegni, contestato da altri, all'interno della stessa magistratura, riproposto in sede europea d'intesa con giudici di altri paesi. Di questo si coglie a piene mani un condizionamento costante in talune iniziative giudiziarie;

c) di scelta degli obiettivi. La vulgata delle opposizioni dice che le leggi in tema di giustizia varate in questa legislatura hanno avuto tutte l'obiettivo di risolvere le vicende del premier e/o dei suoi amici. Non è così, e peraltro non sta bene metterle tutte sullo stesso piano: la riforma del diritto societario era già stata tentata (senza successo) dalla precedente maggioranza in termini tutto sommato non distanti da quelli andati in porto col Parlamento in carica; probabilmente le rogatorie e il legittimo sospetto potevano essere fatti meglio. Ma, se l'amministrazione della giustizia è sempre più schizofrenica, non dipende soltanto dalla politicizzazione; dipende anche da un crescente crisi di efficienza, accentuata da leggi approvate nel glorioso quinquennio dell'Ulivo, dalla "Carotti" al "pacchetto sicurezza", e non lenita nei primi due anni della legislatura in corso. La gente attende delle risposte sul fronte dell'efficienza. E le attende da noi, in base agli impegni assunti in campagna elettorale. Ipotizzare ulteriori modifiche dei codici, e in particolare del codice di procedura penale, del tipo di quelle rintracciabili nella proposta "Pittelli", incrementerebbe l'inefficienza senza aumentare le garanzie (come è accaduto per gran parte delle leggi approvate in materia negli ultimi anni). D'altra parte, per fare soltanto un esempio che ricavo dal processo Previti, sarebbero forse sbagliate, e quindi da modificare, le norme in vigore sulla competenza territoriale, che dicono inconfutabilmente che il luogo del processo è quello della consumazione del reato contestato (e non quello della procura che indaga per prima, come invece è stato ritenuto a Milano)? Porre oggi la questione della sospensione dei processi consente allora di giocare a carte scoperte e senza fraintendimenti: dall'efficienza dell'azione di un governo non condizionato ad libitum può derivare, con concorso del Parlamento, un contributo all'efficienza della giurisdizione.

 

Alfredo Mantovano, responsabile An
per i problemi dello Stato

 

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